La domanda è: esiste un insieme di tratti che, in qualche modo, accomuna i lavori dei compositori miei più o meno coetanei, e li distingue dai lavori di compositori più vecchi di noi di, che ne so, 15 o 20 o 30 anni?
La risposta potrebbe essere un no secco, e sarebbe difficile confutarla. Ma mi sembra anche che, se proprio avessi voglia di fare questo gioco, qualche filo comune lo troverei. Non tecniche compositive nel senso tradizionale - niente serialismo, niente spettralismo (e, guarda caso, questo è già un primo ritrovamento): che cosa allora? Provo a buttar giù una specie di piccolo catalogo, sapendo che raccoglierò molte più obiezioni che consensi: ma anche questo fa parte del gioco, e d'altra parte il mio scopo è sollevare una discussione piuttosto che provare a scolpire nella pietra qualche verità. E quindi cominciamo.
1. Soggettività.
In principio era il serialismo integrale. Poi vennero alea più o meno controllata, process music, spettralismo, automatismi combinatori vari. Sistemi diversissimi, accomunati dal voler sostituire una calcolata oggettività all'arbitrio individuale nell'atto della composizione. Tutti noi li abbiamo incontrati nel corso dei nostri studi, ma qual è il loro impatto sulla nostra musica? Mi pare chiarissimo che nessuno di noi sente più di dover nascondere la propria soggettività dietro formule, meccanismi o divinazioni. E quindi usiamo sì strumenti finissimi, ma i loro risultati sono suggerimenti, non oracoli: e mai metteremo una nota in partitura perché ce l'ha detto un sistema. A meno che la musica che stiamo scrivendo non voglia mostrare proprio gli ingranaggi della macchina, come per esempio fa spesso Mauro Lanza. Ma allora la tecnica (o la tecnologia) compositiva smette di essere un sigillo di garanzia, una rete di sicurezza, un garzone che stende il colore dove non è richiesta la mano del maestro; smette di essere anche, come in Cage e Donatoni, la delimitazione di un contesto meta-musicale in cui collocare l'opera. Diventa invece l'unico strumento possibile per ottenere il risultato desiderato, fino a confondere mezzo e fine: e, in questi termini, di nuovo non cerca di limitare la soggettività del compositore - si limita a spostarne leggermente il campo d'azione.
2.
Il suono brutale.
Molta della musica dei nostri ex insegnanti è stata scritta perché suonasse bene; molta della musica nostra e dei nostri coetanei è stata scritta perché suonasse male. Va bene, è una boutade, ma ci siamo capiti. Ovviamente i primi a cui penso sono gli autoproclamati saturisti francesi, Franck Bedrossian, Raphaël Cendo, Yann Robin. Chi mi conosce sa che non sono un fan del movimento saturista, al quale peraltro riconosco alcuni ottimi esiti. Ma non c'è dubbio che il loro lavoro, dichiaratamente influenzato dalle pagine più fragorose di Romitelli, sia un esempio lampante di un mondo sonoro che, in generale, non appartiene ai compositori che sono stati nostri insegnanti. Più ancora, mi interessa il portato espressivo di questo suono: un vocabolario di parole violente che fino a poco prima appartenevano alla lingua del punk, del noise, di un certo jazz (e cinema, e letteratura), ma che non erano ancora state pronunciate lungo quell'asse della storia che ci ha portati dritti da Ockegem a Grisey. Possiamo scegliere di dirle o non dirle, ma - anche senza bisogno del manifesto saturista - queste parole oggi le conosciamo tutti.
3.
Le musiche cosiddette basse.
C'è una lunga tradizione di disprezzo e senso di superiorità nei confronti di tutte le musiche che non siano nipoti di Johann Sebastian Bach: se dovessi additare un capostipite di questo atteggiamento che è forse la più odiosa tra le cause del nostro isolamento penserei ad Adorno e ai suoi scritti sul jazz. Una delle frasi più perniciose che abbia sentito sull'argomento, da parte di un compositore di chiarissima fama, era del genere "mi piace il rock, ma è musica di intrattenimento, nel migliore dei casi come un buon giallo; noi invece portiamo avanti il linguaggio". Chi mi conosce (anche solo da questo blog) sa come la penso a riguardo, per cui non entro nel merito. Mi interessa solo notare come questo atteggiamento tenda a declinarsi in maniere diverse per musiche diverse - il pop è il figlio ebefrenico della società dei consumi, il rock è volgare e dozzinale, il jazz è noioso e fintamente bohémien, le musiche non europee sono l'espressione di culture antichissime ma immobili nel tempo e ormai irrimediabilmente adulterate, e se questo vi sembra meglio degli altri fermatevi un attimo a pensare allo sciovinismo che sottende - ma è virtualmente omnidirezionale. Però questa cosa è cambiata, non foss'altro perché l'esposizione a mille suoni diversi è parte del nostro quotidiano, molto più di quanto non fosse un po' di decenni fa: o ci compriamo i tappi per le orecchie o siamo costretti a farci qualche domanda. E allora credo che per tutti noi il rapporto con le altre musiche sia un problema aperto e un terreno fertile. Ciascuno poi trova le sue risposte e fa crescere il suo albero…
4.
Leggerezza.
La musica degli anni '60 e '70 era, in generale, terribilmente austera - con come sempre eccezioni notevoli, Kagel, un certo Berio, eccetera. La musica degli anni '80 e '90 ha allentato questa severità facendosi più piacevole e meno problematica, ma mantenendo un atteggiamento aristocratico e un'aura sacrale che hanno contribuito a renderla antipaticissima ai più. Oggi invece Mauro Lanza scrive "L'allegro chirurgo" e "Burger Time"; Simon Steen Andersen mette in scena suoni piccoli, giocosi e ironici; Marco Momi intitola un suo ciclo "Ludica". Non ci sentiamo più la setta depositaria dell'unica verità musicale di un mondo che sta crollando, un po' guerrieri e un po' predicatori. Siamo nerd, siamo piccoli, verità non ce ne sono più… ma forse stiamo cominciando a diventare meno pallosi.
5.
Consonanza.
Mi sembra che l'ultimo tabù dalle nostre parti sia la consonanza. L'organizzazione delle altezze, che è forse il parametro musicale che più facilmente sappiamo razionalizzare, è stata uno dei baluardi della guerra che i compositori di musica seria (poverini) hanno condotto contro il resto del mondo: da una parte il vecchio, la comodità borghese, i dogmi del passato, le ottave e le triadi maggiori; dall'altra il nuovo, la rivoluzione, le none minori, il totale cromatico polarizzato. Orwell però ci insegna come finiscono queste cose e oggi se sento una quarta e tritono penso oh, l'ancient régime: mentre in un modo o nell'altro siamo tutti qui a trastullarci con le ottave e le triadi maggiori, magari filtrate dallo spettralismo; e a provare a ritrovare il senso degli intervalli, per esempio interrogando la modalità (quella di Perotinus o quella di Leadbelly, non importa) e poi magari rompendola e storcendola e inacidendola un po' - e magari invece no. La sensazione diffusa è che l'utopia (o distopia?) dell'eliminazione del centro tonale abbia prodotto più grigio che colori; che l'antinomia consonanza/dissonanza sia un ottimo argomento di conversazioni da bar, ma in definitiva un falso problema; e che la partita della modernità si giochi su terreni ben più complessi, meno riducibili a formule e, per questo, molto più interessanti.
6.
Ripetitività.
Mi pare fosse Schönberg che un giorno disse qualcosa come "il compositore non faccia quello che può fare un copista". Di acqua sotto i ponti ne è passata, eppure il terrore della ripetizione - il più delle volte giustificato come rifiuto del tematismo - è duro a morire in certi ambienti: mentre il minimalismo, che della ripetizione parossistica aveva fatto il centro del suo mondo, ci dà la misura di quanto la questione fosse scottante e ideologica. Il problema è evidentemente ancora aperto, basta guardare il commento di Raffaele al post su Kyriakides, ma è stato enormemente ridimensionato, e oggi preferiamo parlare del senso della ripetizione piuttosto che guardare il fenomeno in sé, e chiederci - caso per caso - se produce bellezza, potenza, architettura, o se è solo ecolalia (dopodiché, come si vede appunto nella discussione su Mnemonist S, non sempre ci troviamo d'accordo). E al tempo stesso, senza issarla come una bandiera, la ripetizione ormai ha il suo posto nella cassetta degli attrezzi di ciascuno di noi.
7.
Ritmo.
Di questo ha già parlato Daniele, sempre a proposito di Kyriakides. Condivido in pieno la sua posizione sul fatto che l'estrema fluidità ritmica tipica di un sacco di musica del secondo Novecento può generare una specie di grigio indistinto - in fondo perfettamente corrispondente al grigio nello spazio delle altezze di cui dicevo prima. E infatti in molta musica recente vediamo un ritorno alla griglia ritmica tanto bistrattata da chi ne vedeva solo una banalizzazione del continuum temporale. Il punto di vista per cui la necessità di un'esplicita regolarità e gerarchia ritmica è dovuta ai meccanismi della percezione è sicuramente molto vero in ultima analisi. Io aggiungerei che, oggi che non è più vietato avere le orecchie aperte a quello che ci suona attorno, ci accorgiamo di quanto siano interessanti le musiche in cui regolarità e gerarchia sono talmente importanti da diventarne il primo parametro costitutivo: ci mostrano un orizzonte che nella vecchia Europa era essenzialmente sconosciuto, e che invece emana da uno degli archetipi ultimi della musica. (attacca)
8.
Essenzialità.
C'è un sacco di musica con un sacco di fronzoli in giro, il virtuosismo della scrittura che diventa manierismo, il gioco dell'elaborazione del dettaglio che finisce per confondere e soffocare il senso profondo delle cose: salvo che a volte si finisce per dubitare che questo senso ci sia davvero, da qualche parte sotto le decorazioni. Non sorprende, allora, vedere un movimento generazionale verso qualche forma di essenzialità, di semplificazione. Niente a che vedere con la "Nuova semplicità" di Rihm, che è piuttosto un tradizionalismo aproblematico e quindi semplicistico più che semplice. Invece togliamo, togliamo, togliamo, chiedendoci dov'è il senso e cercando di avvicinarci all'essenza della musica, ai suoi archetipi: e non c'è dubbio che preferiamo rischiare di restare completamente nudi piuttosto che scoprirci a stendere vernice colorata sul vuoto.
9.
Romitelli.
Comincio. Sono d'accordo su tutto. Però avrei una cosa da aggiungere importante, che ci accumuna con le musiche basse, dal mio punto di vista. Il volere dire qualcosa cercando di farlo in maniera diretta. Come capita negli esempi che fai. Il grosso gap è quello con il post spettralismo e donatonismo degli anni 90 che ci ha portato su lidi neoclassici (Lindberg per esempio o Saariaho). Forse risentiamo il bisogno di spingere il discorso verso un limite per vedere che cosa succede, e per farlo dobbiamo chiarirci su che cosa dire, per potere supportare le scelte estetiche di cui ci facciamo carico.
RispondiEliminagiusto, e molto interessante. il paragrafo potrebbe chiamarsi "radicalità"...
RispondiEliminaAspettate un attimo: non sono d'accordo. "Radicalità" è un termine che non caratterizza in particolare la nostra generazione. Anche certi nostri "nonni" sono radicali: Cage non era radicale? Stockhausen? Perfino Boulez, per certi versi? (E andando più indietro: Beethoven non era radicale? Però certo è più un caso isolato, più che una generazione. Ovviamente si può ancora risalire.) Riguardo al dire qualcosa in maniera diretta, solo un appunto: in musica il "cosa" si dice e il "come" si dice non sono poi così scorrelati.
RispondiEliminaUn aspetto che invece aggiungerei, e che secondo me manca nella lista, è l'approccio all'informatica: bene o male tutti noi usiamo il computer per vari scopi musicali (in modi molto diversi, ma con una base di conoscenze comuni): dal fare un veloce editing della registrazione di un nostro pezzo, al lavorare i suoni elettronici, al trascrivere (o scrivere) i nostri pezzi in un programma di notazione, all'utilizzo della composizione assistita... Per la maggior parte dei nostri "padri", buona parte di questo era arabo, o quasi. In più l'informatica e la rete hanno cambiato molte cose, tra cui la maniera di fruire la musica (youtube, soundcloud...), e la maniera di parlare della musica (/nu/thing ne è un esempio!).
Sono d'accordo che "radicalità" non è una parola molto sexy - l'avevo buttata lì quasi per gioco... però la tua obiezione, per cui un atteggiamento radicale si è già visto nella storia, non inficia il fatto che possa rientrare nei tratti distintivi della nostra generazione: almeno nella misura in cui vogliamo giocare al gioco che ho proposto, per cui mi chiedevo cosa ci distingue dalla generazione dei nostri insegnanti, non da tutte le generazioni precedenti.
Eliminasul rapporto col computer, è sicuramente vero quello che dici. però, nonostante tutto, non mi sembra un dato strettamente musicale - piuttosto sociologico, al limite. però è sicuramente un punto importantissimo (con me sfondi una porta aperta, lo sai bene ;) ), e meriterebbe di essere approfondito...
ciao Andrea, complimenti per post denso e accattivante e in qualche misura decisivo.
RispondiEliminasono d'accordo nella difficoltà di trovare dei tratti comuni;quelli che scrivi sono sicuramente dei "punti di riferimento" molto accettabili in un'epoca dove il concetto stesso di esaustibilità è fuori luogo.
Sospendo il mio commento sulla ripetitività e il ritmo, argomenti troppo complessi per me al momento perché non mi sono molto chiare ancora le proprietà che sottendono a questi concetti.
Non concordo molto sulla leggerezza, forse sia perché troppo influenzato da lucide considerazioni calviniane, sia perché la leggerezza come tu la intendi in verità ha sempre albergato nella storia della musica, ma in qualche modo relegata in sede di studio e di trasmissione del sapere. Penso ad alcuni mottetti rinascimentali molto spiritosi, ai divertimenti barocchi, alle opere buffe, alle avventure ligetiane. Leggerezza come ironia, cioè come una manifestazione creativa fra le più ardue (Aristotele docet).
Forse non sono nemmeno d'accordo sull'essenzialità, concetto che mi giunge troppo viziato dalla soggettività, cioè che si basa su un a-priori che sembra vole fare esistere una essenzialità delle cose, una loro verità (ahimé adorniana...). C'è stato, è vero, Loos che diceva che "ornamento è delitto" ma sinceramente in musica, ed è molto che ci penso, io l'ornamento non so cosa sia. A meno che non vogliamo considerare gli ornamenti propriamente detti come reali ornamenti ad una essenzialità ad esempio della linea melodica, ma allora sarebbe negare che ad esempio i trilli, i groppi, le appoggiature etc non fanno parte integrante della musica, cosa che invece è assolutamente vera. Ed anzi è proprio grazie a loro che la retorica musicale espleta appieno il suo compito. Ma non credo ti riferissi a questo; ma allora non so cosa intendi per "fronzoli"...
Forse non concordo appieno neanche sulla consonanza, nel senso che credo che proprio il superamento di una nozione di intervallo sia alla base di un sentire contemporaneo (sempre declinato attraverso un "noi" che sì, assolutamente andrà approfondito, ma che in qualche modo ora e qui si sta volenti o nolenti un poco definendo). Detto questo è vero che intervalli hanno un retrogusto di storicizzazione, eppure è bizzarro come il repertorio vasto, come ad esempio quello medievale (generalizzando un po'..), ma anche molti repertori extra-europei-colti-scritti, ci ponga di fronte a fenomeni per me scioccanti dove esistono canoni improvvisati alla seconda minore e tritoni. Interpreto quella che tu individui come consonanza come una reazione nostra di (ex)studenti di composizioni (e non sempre di composizione) calati in un contesto didattico particolare, cresciuti ben-temperati anche quando non avremmo dovuto, schiavizzati da una dozzina di note che in verità sono molte di più, o talvolta anche meno, ma intonate molto diversamente.
Forse non concordo appieno nemmeno sul paragrafo saturista; devo dire che al di fuori dell'ambiente francese, il fenomeno non mi pare essere così decisivo. Io che mi ci sono accostato tardi, non ho trovato, a parte alcuni brani molto riusciti, degli argomenti così interessanti, specie sul piano teorico o tali da giustificare una corrente; mi sembra un po' un abile mossa di marketing. Perchè la saturazione non è un argomento così forte come le precedenti serialità e spettralità; sembra che si riferisca più all'accezione latina di satira, non in chiave comica, ma in quella che rimanda ad un potpourri di roba mischiata assieme. Cioè non mi è chiaro in questa corrente la consapevolezza, e quindi una produzione che la manifesti, di tutte le sfaccettature che la saturazione, intesa come fenomeno acustico, comporta: saturazione registrica (e allora penso a Ligeti e al primo Penderecki), saturazione spettrale (allora no mi sembra finora che la produzione di tale corrente abbia dato risposte significative in tal senso), saturazione fisica (allora qualsiasi produzione noise si è spinta molto oltre), saturazione figurale (allora Ferneyhough mi sembra più convincente), saturazione dello spazio performativo (allora molta musica "spazializzata", dai doppi cori veneziani fino ad Octophonie, in poi mi sembra più efficace), saturazione temporale (a voi trovare i numerosi precedenti). Proprio non arrivo a capire l'interesse, non per la musica prodotta (ripeto alcuni brani sono proprio riusciti) ma per l'etichetta.
RispondiEliminaLa Newthig allora forse io la vedo principalmente nell'autodidattica che ci porta ad avere orecchie aperte, a trovare noi stessi per primi dei tools analitici adeguati, sia tecnici che sociali, nel rovesciamento conseguente delle priorità di approccio analitico e fenomenologico ad un brano o ad un repertorio. L'esplosione frammentata delle fonti, la possibilità di essere potenzialmente in condizione di sfamare ogni passione o semplice curiosità, l'essere messi di fronte all'insieme il più dettagliato possibile di conoscenze, la nostra conseguente reazione selettiva nei confronti di una mole enorme di stimoli, la digestione personale e il più consapevole possibile all'unico maestro di noi stessi, ovvero il nostro gusto. Lo stesso gusto che implicitamente regola un "noi" senza che al momento questo ci limiti in alcun modo.
Mi accorgo che non concordavo appieno su quasi niente, ma di fatto invece seguivo il tuo ragionamento dandoti molta ragione.
Forse è un gusto in comune, sotteso, prezioso.
...."radicalità"...
RispondiEliminanon è un termine che secondo me risulta appropriato per la nostra generazione, raramente ho ascoltato pezzi con un atteggiamento totalmente estraniante dal contesto contemporaneo (o quella famosa cazzata che ancora oggi molti si ostinano a chiamare "koiné" contemporanea...).
Non vedo pezzi radicali nella nostra generazione, e non venitemi a parlare dei distorsionisti perchè altrimenti consiglierei di rispolverare qualche disco di qualche decennio fa di qualche gruppo rock progressive, metal, acid e free jazz (compreso un certo Miles Davis), etc...etc...ma non voglio fare nessun elenco, solo l'invito ad ascoltare più attentamente l'evoluzione della storia della musica.
La maggior parte delle musiche che ancora oggi ascoltiamo (e scriviamo) si trascinano dietro un atteggiamento fortemente impregnato e filtrato che richiama troppo da vicino certe scelte adirezionali che sono state effettuate in precedenza da generazioni precedenti.
E da questo punto di vista mi trovo piuttosto d'accordo con Carlo (che saluto) sul principio dell'autodidattica.
Chissà, forse sarà in un contesto similare, ovvero auto-annullandoci e auto-ricostruendosi che probabilmente troveremo una parte limpida e trasparente in noi stessi.
Ciao a tutti, ciao Carlo! (autodidattica... molto interessante... da riprendere...). Faccio i complimenti ad Andrea per il post, conoscendolo immagino l'enorme sacrificio auto-imposto di prendere la scure in mano per riordinare alcuni spunti di post precedenti. A tal proposito ci tengo a ribadire una posizione personale ma credo del tutto condivisa tra gli "autori" del blog. Non ci interessa rendere questo spazio un contenitore per manifesti di sorta. Ci tengo a ribadirlo perché il post di Andrea è ampio e forse si tende a dimenticare la preziosa prefazione. Il gioco delle cose in comune è un gioco che a mio avviso serve a palesare l'opposto, la ricchezza della diversità nella musica autentica, del resto i brani da noi proposti non sono certo assimilabili tra loro se non forse da un fondo di genuino confronto con gli intimi e pubblici pungoli. In merito a questo la penso in direzione opposta a Daniele. Per me in musica il "come" si dice e il "cosa" si dice sono proprio scorrelati, anzi forse un bel punto è proprio questo... Nel continuare con le fastidiose puntualizzazioni-distinguo, non vorrei che alla parola "diretto" se ne collegasse un'altra: "brutale". Per me diretto significa anche disegnare l'incerto e l'interrogativo. I fronzoli: ok ci sto, a patto che non si confondano i suoni necessari con quelli decorativi: io non metto quasi più trilli, per me sono inutili, per altri sono necessari (per fortuna!!!); è una puntualizzazione che risiede nell' idea di semplificazione o meglio essenzialità (manifesta o no... vedere prossimo post sul brano di Stefano Bulfon), non confondiamola con impoverimento! a mio avviso per altro il gioco della ricerca dell'archetipo è ormai sempre più spesso un percorso vuoto... che per l'appunto porta ai fronzoli. Capitolo "suono brutale"... ok, avete già espresso pareri che condivido sui saturazionisti, non condivido però quello che dice Carlo sul fenomeno limitato... io trovo che dilaghino tra i più giovani, soprattutto in nord Europa. Mi sono sentito un grande cojone 2 anni fa nel palesare questa mia preoccupazione a Yann e Franck: "...ma sapete che vi scopiazzano???..." la risposta fu "...fanno bene...". Comunque non sono affatto d'accordo sul riconoscere loro una particolare dote autogenerativa, Romitelli non è un riferimento, è una fonte dalla quale hanno attinto senza tanti scrupoli, e mi interessa citare il Dufour di Saturne...1979!Con ciò li seguo con interesse, anche talvolta per forza di cose.
RispondiEliminaMusiche basse; in larga parte hai ragione, ma da qualche tempo a questa parte mi sto ponendo una domanda: quelli che sbandierano riferimenti rock (o meglio dire "cool" etc. etc.) dove sono ora che hanno la possibilità di maneggiare produzioni da buone migliaglia di euro?risposta: nelle sale da concerto. Insomma... che tristezza, mi aspetto altro da loro, dico sul serio... sorprendetemi!togliamo i filtri, ci sto! ma allora preferisco pensare alla musica sopra i generi e godermi Schubert, i Radiohead o Mannarino senza vergognarmi di dire che ho passato anni sul suono Bachiano. Questo approccio nuovo non ha valore perché nuovo, altrimenti rischia di diventare l'anti-accademia = nuova accademia. Sulla "leggerezza" un po' ci sto, anche se sempre più sento di doverla coniugare con la "esattezza" (se non con la "consistenza"... da intuire); concordo pienamente sul non sentirsi depositari di una setta e per argomentare tale affermazione cito una frase recente di Dufourt: "L’esaltazione naïve dell’universo tecnologico ci sembra ormai più un oggetto di culto che non un progetto artistico. Lo stesso si può dire delle grandi sperimentazioni sul linguaggio, che amalgamano una poetica del distacco a riferimenti stilistici straniati. Il formalismo si indebolisce, il sincretismo si spegne. La musica non può, oggi, eludere l’urgenza di un nuovo confronto con il divenire storico, e in primo luogo, del proprio. "
RispondiEliminaNon siamo piccoli e non siamo nerd, siamo, come dici bene, guerrieri un po' meno pallosi, con il coltello in bocca e incerti e che scrivono qui perché in grado di controllare parte del proprio ego. Questo forse è il "noi" senza che con ciò si intenda questo luogo o chi scrive in nuthing, ma tutti quelli citati o che citeremo. Perché ci piacciono. TBC (come dice Eric)
Ola. Chiaramente il post ha gerato molte nuove cose. La cosa che mi tocca di più è la differenza tra "cosa" e "come" che Daniele ha appiattito. Per sono molto diversi, e bisogna avere il coraggio di dire qualcosa, e di avere qualcosa da dire, prima di pensare al come. I formzoli o meno sono questione personale, il problema nasce quando l'assenza o la presenza appare come vuota. Ma di questo tutti ce ne accorgiamo. Su Romitelli, beh, come dire: Romitelli= Index of Metals, Yann Robin= Art of Metal I, II, III. Come dire che Strasvinsky ha scritto la Sagra della primavera e siccome funzionava ha fatto sagre per tutte le stagioni. Io invece sono convito che sia utile, per noi e per il nostro mondo musicale di riferimento, di chiarire e dare ordine alle tematiche in gioco oggi tra di noi, e magari anche di essere un pò "radicali" senza virgolette. C'è bisogno di discutere e di animare il nostro mondo, e lo si può fare attraverso il discorso e il confronto netto su temi importanti, come quelli che ha elencato Andrea. I sarei per proseguire, senza fare manifesti, ma cercando di imporre un discorso e dei contenuti che ci risveglino. Di questo sento molto il bisogno. Quindi parliamo di linguaggio, di non linguaggio, di cose alte e difficili in musica, di cui non si parla per restare attaccati alla maniera circostanziata di dire che il pezzo è interessante, però... (tbc)
RispondiEliminaNo, aspettate un attimo: io non ho "appiattito" la differenza tra "cosa" e "come". Ho solo detto che le due cose sono legate. Non sono mica la stessa cosa! Però un'idea fortissima (ad esempio: l'universo di Sciarrino: il "cosa") si manifesta e si concretizza anche nel modo compositivo con cui si esprime (il "come"). Le due cose sono legate: cambi il "come", e anche il "cosa" non è più lo stesso. Tutto qui: non sono la stessa cosa, ma sono in relazione forte.
RispondiEliminaComunque interessante il punto di Carlo sull'autodidattica. Interessante perché paradossale: nessuno di noi è, naturalmente, autodidatta, strictu sensu. E talvolta questo può essere in realtà un problema per tutti (qualcosa con cui dobbiamo confrontarci). "Tenere le orecchie aperte" sulle altre musiche è qualcosa che a mio avviso i buoni compositori hanno sempre fatto nella storia. Solo che oggi abbiamo molte più musiche, e molti più strumenti per accedervi! Quindi, ancora una volta, secondo me la novità non è (tanto) nell'approccio, ma nella quantità di roba e nella maniera (nuova) con cui interagiamo con essa.
RispondiEliminaPer inciso, Eric: mi pare che la questione che sfiori è quella della musica in serie. Ne discutevo qualche tempo fa con Andrea Agostini, che mi portava il punto di vista interessante di Verrando. Se ho capito bene (ma vale la pena che Andrea scriva direttamente, perché rischio di travisare...) Verrando rivendicava nello stesso tempo il diritto, il valore e l'importanza di scrivere opere in serie - un po' come sostanzialmente ha fatto per un lungo periodo Mondrian.
Sì, è vero; l'autodidattica è più una questione di quantità che di diverso atteggiamento storico. Una precisione su Marco (ciao!); non intendo fenomeno limitato l'influenza dei saturi, dico solo che il successo che hanno avuto a mio modo di vedere le cose ha origine in una certa cecità di chi non ha colto le stesse loro problematiche in moltissima musica del passato. cioè che è il loro tasso di "novità" (se ha senso parlare di ciò) ad essere limitato, sia nella poetica, sia nella realizzazione tecnica; a loro il merito di aver attualizzato una realizzazione attuale di alcune problematiche che però non sono necessariamente extra"colte", anzi, almeno così mi pare.
RispondiEliminaL'ultima cosa: perdonate, io non ho capito molto bene la storia del "come" vs "cosa"...qualcuno me la spiega un attimo...?
p.s. interessante la citazione di Dufourt.
Ciao Carlo, la storia del "cosa" vs "come" è, per come la intendevo, l'eterna questione di "contenuto musicale” vs "sua realizzazione". Le due cose mi sembrano in una relazione di dipendenza reciproca piuttosto stretta. Proprio per ragioni anti-linguistiche, se vuoi: se per due scrittori che scrivono la stessa cosa con due prose differenti (una ampollosa e una puntuta) si riconosce un "cosa" di fondo uguale (grazie, più o meno, ai significati), musicalmente questa cosa non ha senso: "cosa" e "come" sono legati: nella prosa c'è contenuto. E' questo che intendevo. (Ovviamente questo può pure essere vero nella letteratura, sto solo semplificando per fare un esempio).
EliminaPoi, andando più in profondità, tutti questi termini ("cosa", "come") diventano in fondo parole vuote.
l'antico dilemma forma e contenuto. sono d'accordo con te. non credo però la cosa sia facilmente liquidabile con un'antinomia apparente; cioè non sono parole vuote, sono parole insufficienti perché sono solo due. trattasi di una storia lunga che un giorno merita sicuramente un bel post :)
EliminaCiao. Non parlavo di musica in serie. Dicevo che, come dice Carlo, sono passati dalle idee di un Romitelli al marketing dei suoi contenuti: da Index of metals a Art of Metal uno due e tre. Dalle stelle alle stalle...La cosa del "come" e del "cosa" era all'inizio della discussione perhé Daniele di diceva che non sono scorrelati. In effetti.
RispondiEliminaLa cito e la faccio mia: "togliamo, togliamo, togliamo, chiedendoci dov'è il senso e cercando di avvicinarci all'essenza della musica, ai suoi archetipi: e non c'è dubbio che preferiamo rischiare di restare completamente nudi piuttosto che scoprirci a stendere vernice colorata sul vuoto." Bravo Andrea!!!
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