Quando scriviamo musica che cosa teniamo e cosa buttiamo? Secondo quali motivazioni compiamo tali scelte? Sono due domande piuttosto complesse, e che a mio avviso meritano di essere affrontate, anche se molto brevemente.
Sulla prima, sappiamo bene che non tutto quello che ci passa per la testa viene trascritto sulla carta. Non siamo dei dittafoni musicali, e nemmeno dei medium in contatto con la musica delle sfere. Ciò che passa per la testa viene filtrato nel processo compositivo. O, meglio, tale processo è di per sé un filtro.
Scrivere è filtrare allora, e come un setaccio, una griglia e un colino lasciano passare la parte liquida - che si disperde - e trattengono gli elementi solidi – che rimangono – così delle cose restano, mentre altre vengono buttate.
Il filtraggio opera sempre, da prima dell'inizio della prima nota che si scrive - ovunque la si voglia scrivere – alla fine, quando ci ricordiamo del pezzo ascoltato anche dopo decenni, forse fino all'ultimo istante della nostra vita cosciente.
Detto ciò, mi chiedo se filtrare significhi sempre scegliere coscientemente cosa trattenere e cosa lasciare – o lasciarsi scappare fra la dita. Abbiamo sempre un controllo sul passaggio delle sostanze? Possiamo sempre decidere quanto fitto sia il reticolo del setaccio? Se sia uniforme o presenti da qualche parte dei fori più stretti – o più larghi? E poi, quante volte ripassiamo nel filtro i flussi musicali prima che il materiale trattenuto ci piaccia davvero?
Ecco, forse siamo al nocciolo del problema. Ciò che teniamo ci deve piacere, credo. Dunque, quello che si scarta non ci piace.
Ma qui si installa l'altra domanda: perché ci piace? Cosa c'è nel filtrato che ci fa dire “ecco, questo lo tengo”, oppure “no questo lo butto?”. Ogni compositore potrebbe tentare una risposta. Qualcuno potrebbe dire che tiene il filtrato proprio perché è la qualità dell'operazione di filtraggio a determinarlo, e che tale relazione la ritiene fondamentale. Altri, avanzerebbero altre ipotesi – di cui ora non saprei rendere conto.
Mi spingo oltre – in questa specie di delirio pseudo filosofico – dicendo che il ritenere fondamentale qualcosa è il nucleo di tutta l'operazione compositiva, del filtrato e delle scorie.
Ma allora, anche le scorie hanno un valore? Proprie perché passate attraverso il filtro, non dovrebbero avere una loro importanza capitale?
Ma le scorie non le sentiamo mai. O forse sì – come in certi pezzi elettroacustici in cui il compositore recupera ciò che altri hanno scartato – ma in quel caso lui o lei – compositore / compositrice – si appropria dello scarto e ne fa il materiale del pezzo (ovviamente, rinunciando o rifiutando altri elementi).
Ad ogni modo, è pur vero che la storia delle scorie è diventata oggetto di studio musicologico. Vedi gli appunti di Beethoven sul secondo movimento della quinta sinfonia. I filologi musicali contribuiscono all'incisione delle prime o ennesime versioni mai approvate né definitive di tante opere musicali, vere chicche per gli amatori e i classicisti.
La storia della musica è fatta più di ciò che si butta di ciò che si trattiene, ma di quello che si getta nel cestino non si sa quasi nulla. E anche questo è, a mio avviso, un aspetto importante.
Forse ciò che manca (nel pezzo che sentiamo) non si può contare (perché ce n'è una quantità considerevole). Ma nessuno ha detto che non sia altrettanto importante.
Aggiungo: oltre ai pezzi in cui il compositore recupera ciò che altri hanno scartato, ci sono anche i pezzi in cui il compositore recupera ciò che lui stesso ha scartato. Non so a voi, a me capita abbastanza spesso, soprattuto nella musica elettroacustica. Invece di scartare, tipicamente metto da parte, e a un certo punto mi ritrovo con una certa quantità di materiale che è una specie di "residuo per sottrazione", affastellato alla rinfusa in coda al pezzo. Ma non di rado si rivela interessante per un'altra sezione o per un altro brano. In questo caso, e per me, difficilmente scartare è gettare nel cestino, più spesso è semplicemente scegliere, e tenere da parte. Non si sa mai... :)
RispondiEliminaIn queste scelte c'è la praticità e la "performatività" dell'atto compositivo, in cui giocano tantissimi fattori, non ultimo lo stato emotivo del momento (se un materiale lo elimino o lo metto nei "residui" dipende anche da quanto arrabbiato sono con me stesso per il risultato deprimente!) E tra l'altro il fatto che questo procedimento mi sia molto più naturale nella musica elettroacustica che quando scrivo note mi fa riflettere...
Grazie per il bel post Andrea! In effetti non saprei trovare metafora migliore del filtro; anche se il comune sillogismo "filtrare equivale a tenere dei residui" - "quando scrivo musica filtro" dunque "scrivo musica residuale" non mi ha mai del tutto convinto. In realtà non so se siano "scarti", fatto sta che le parole di Daniele sono vere e non solo per la musica elettroacustica. Mi spiace riferirmi spesso a questioni personali, chi mi conosce sa che lo faccio in buona fede. Una volta mi sono trovato in una particolare situazione: per un qui pro quo avevano confuso la data di deadline di un lavoro, mi avevano comunicato una data antecedente al reale limite temporale, così mi trovai con otto giorni in più per rivedere l'elettronica. Dopo il primo sconforto seguì un momento di felicità, avevo ben otto giorni in più (che in una circostanza "limite" come quella in oggetto... non erano pochi) per correggere cambiare, limare... Per farla breve mi sorpresi del fatto che in otto giorni e almeno ottanta ore di ri-lavoro, non cambiai assolutamente nulla. Il pezzo non era affatto perfetto e lo sapevo, non era dei miei migliori, ma non avevo nulla da cambiare. La cosa mi ha perturbato alquanto, perché mi palesava il fatto che non avevo (come non ho ora) la più pallida idea di come funzionassero i miei filtri. Nel mio caso non tutto ciò che lasciai mi convinceva al 100%, non potrò mai dire che tutto quel poco che ho scritto mi piace. Alla fine ho sempre confidato sul fatto che i destini dei pezzi sono in gran parte ignoti a chi li scrive, ma la questione della coscienza del filtro rimane. Per farmi perdonare il commento da "anonima compositori" vi riporto una frase di G.K. che mi ha recentemente colpito: "... un'opera d'arte non è semplicemente il residuo di un evento ma anche il segnale di questo, segnale che spingerà altri a ripeterla o a migliorarne la soluzione".
RispondiEliminaCredo che passare al setaccio quello che scriviamo faccia parte dell'atto dello scrivere. Scrivere in qualche modo è fare setaccio, perché fissare qualcosa è congelarla e astrarla dalla vita, purificarla, vedere se c'entra qualcosa con noi, e rimetterla alla vita per iscritto, che significa, quasi, uccidere il movimento, fissare. Dare vita per un compositore significa finire il flusso, chiuderlo una volta per tutte. Questa è la partitura, è il frutto. Il compositore fissa per dare la vita, getta per pulire e per potere riconoscersi. Poi, una volta che la finzione è creata possiamo tornare a ciò che è stato scartato, che è dove c'era la vita che ci ha portato a una partitura. La composizione vera è scegliere in continuo, e decidere, a un certo punto, che su una cosa non torneremo mai più.
RispondiEliminaMolto interessante... questo posto mi tocca molto da vicino proprio in questi giorni, in cui sto faticosamente lavorando alla seconda versione di un pezzo - e il lavoro, di fatto, consiste per la maggior parte nel buttare via cose inutili.
RispondiEliminaDevo dire però che il mio approccio, in generale, è esattamente l'opposto di quello di Daniele: il materiale che elimino è per me materiale di scarto, e finisce immancabilmente nell'inceneritore. Credo non mi sia mai successo di tenere qualcosa da parte per un lavoro successivo. Semmai faccio esattamente l'opposto: ciò che mi convince molto di un pezzo (ma qui parlo di idee formali, sonorità, pensiero, "stile" insomma piuttosto che "materiale") ha qualche chance di ricomparire altrove. Per tutto il resto non ho pietà.
Post molto bello, e sicuramente sviscera una tematica a noi tutti molto cara e attuale.
RispondiEliminaPer quanto mi riguarda io sono solito setacciare e scandagliare ogni singola nota.
"Ciò che teniamo ci deve piacere, credo. Dunque, quello che si scarta non ci piace."
Non necessariamente è vero, a me capita di ritrovare schizzi, appunti, bozze che avevo scartato mesi o addirittura anni prima, e ritrovarvi dentro molta freschezza, attualità, profondità, tanto da chiedermi "perchè ho scartato questo materiale?"
Ultimamente ho scritto un pezzo fatto quasi interamente di scarti vecchi...di appunti di viaggio...di cose che nel tempo ho ritenuto "non all'altezza", e che poi magicamente si sono rivelate ai miei occhi come pietre preziose malcustodite.
Quindi verrebbe da chiedersi se effettivamente ciò che scartiamo è perchè non ci piace o perchè non ci è utile.
L'utilità e il gusto personale. Il "filtro" credo proprio che risieda lì in mezzo.
Ci spinge a scegliere, setacciare, eviscerare. Ci spinge ad avere coraggio, quello stesso coraggio che a volte non mi consente di incenerire definitivamente il materiale che non scelgo di utilizzare per quel determinato pezzo.
Concordo con Raf: non è vero che tutto quello che si scarta non ci piace. Per esempio, si può scartare materiale in sé interessante, ma che non funziona all'interno di un certo piano o prospettiva che si ha per una certa sezione o brano. In quest'ottica, ha senso conservarlo invece che gettarlo via. Poi ci sono una serie di fattori umani che influiscono nella scelta tra archiviare e gettare via - ad esempio, nel mio caso, 1. una discreta pigrizia :-), 2. il fatto che questa "raccolta di scarti" potrebbe diventare velocemente ingestibile, 3. il fatto che il nostro cervello opera già un fantastico e misterioso filtraggio attraverso la memoria (anzi, è molto più di un filtraggio, ma qui andiamo su un altro terreno...).
RispondiEliminaCiao...secondo me lo scarto spesso è difficile da motivare. Più che la memoria è il caso!!!!
RispondiEliminaCiao, scusate l'inserimento ma l'argomento è molto stimolante, al riguardo ho sempre avuto un immagine in mente che potrebbe ben rappresentare la questione: un prisma. L'atto creativo divide un unico flusso generativo, che potrebbe essere un idea musicale o il semplice atto del comporre, in una molteplicità di elementi conseguenti, alcuni "colori" confluiranno nell'opera, o saranno funzionali al suo sviluppo, altri si disperderanno. La posizione del prisma implica diverse modalità di rifrazione, a volte delle posizioni estreme escludono qualsiasi tipo di divisione del flusso, si evita quindi di operare un filtraggio dell'idea originale, in altre posizioni si vuole ottenere la perfetta scomposizione del flusso in parti "armoniche", o in altre ancora si evita del tutto di porsi di fronte al flusso (Cage?). In questa prospettiva la scelta e lo scarto del materiale hanno lo stesso valore nel processo compositivo (o meglio "scompositivo", passatemi il termine), sono entrambi dipendenti dalla posizione iniziale del prisma, ovvero dalla disposizione iniziale del compositore ed alla sua capacità e volontà di decomporre il flusso in parti utili o meno (incomincio a scrivere come Donatoni :) )
RispondiEliminaecco, sono d'accordo che ciò che buttiamo durante "il comporre" - perdonatemi la prosaicità del termine - lo possiamo comunque usare / rielaborare / trasformare o semplicemente "ragionarci sopra", (o "digerirlo"), per altri pezzi. Su questo non ci piove. Ma nel pezzo che "qui e ora" sto scrivendo, gli elementi scartati non ci saranno. Però mi chiedo, ribaltando il discorso, forse ci sarà la traccia della loro assenza? Vale a dire, esisterà una traccia nel testo (musicale) di ciò che manca, di ciò che è saltato dalla finestra, un'impronta della suola del fuggitivo, un ceppo di tronco d'albero che è stato segato, insomma...un elemento visibile / udibile che segnali manifestamente l'avvenuta scelta effettuata da chi ha scritto? Lo possiamo trovare nel testo musicale? O forse mi sbaglio, ogni nota porta il campo delle possibilità non utilizzate..... Filtro, prisma, setaccio. Eric dice che la composizione vera è scegliere in continuo e decidere che su una cosa non torneremo mai più. Questo mi ha molto colpito, e ci sto riflettendo, perché per me è un punto molto molto molto delicato. (tbc)
RispondiEliminaCiao Luca, la metafora del prisma è molto stimolante, però lascia intendere che il flusso generativo sia un "tutto" e un "unico" (come luce bianca?). In realtà, almeno per quanto mi riguarda, è quasi il contrario: comporre non è scomporre, ma è proprio mettere insieme la pluralità degli influssi (possibilità?) in qualcosa di coerente. E, anche quando si tratta di fare delle scelte, raramente procedo per vera scomposizione, ma piuttosto per "distillazione". Ovviamente è un punto di vista personale e per nulla donatoniano :-)
RispondiEliminaANdrea, post intenso...; è vero, concordo con Eric, in qualche misura ogni scelta è una rinuncia per sempre di cui forse rimane traccia, solo alcune volte credo, nella memoria, come appunto scelta consapevole, come rinuncia, come fallimento, come custodia per un altro pezzo. Di qui il senso di sollievo che la cancellatura a volte induce, o piuttosto di frustrazione. Per me gli atteggiamenti di fronte a ciò-che-non-è-più-scritto dipendono molto da questo d'animo; se l'atteggiamento è stato rinunciatario, se intimamente cancello per sconfitta, allora sicuramente ci tornerò sopra, magari partendo anche proprio fisicamente dal foglio/file cancellato; se è scelta consapevole, no. Per il resto, sono sicurissimo che esista traccia della loro assenza, quanto meno in noi. Ricordo, un po' fuori tema, ma non poi tanto, di una lezione di Zanolini su Dallapiccola, in cui ci spiegava, accanto alle tecniche seriose dodecafoniche impiegate in non ricordo esattamente che pezzo, che talvolta la serie era solo "accennata" per così dire; delle piccole cellule orchestrate sullo sfondo con le note appartenenti alla testa della serie e in diminuendo, come richiami di una appartenenza perduta. Forse l'esempio un po' calza? Per finire, quoto in toto il posto di Marco e la citazione di G.K.: sono d'accordissimo.
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