Riprendo il metodo dell'esperimento mentale e vi pongo una banale esemplificazione di una situazione in cui sovente ci ritroviamo durante i concerti di musica contemporanea. Lo faccio ipotizzando di avere un microfono e di aggirarmi di nascosto fra il pubblico che ha ancora i timpani ben caldi. Tra i commenti che registro con un qualche sotterfugio ne scelgo alcuni che riporto di seguito:
"Ah ma questo sembra un Lachenmann a tempo di valzer…" "ah ma questo è un Grisey con le cadenze d'inganno …" "Ah ma questo è un Ferneyough spettrale…"
Lachenmann, Grisey e Ferneyough sono - volenti o meno - alcuni fra i possibili paradigmi coi quali abbiamo a che fare quando ci poniamo all'ascolto della nuova musica. Non sono gli unici, ripeto. Ognuno ha i propri. Vero è che che nella "cassetta degli attrezzi" simbolica che è la nostra cultura (prendo a prestito la metafora del "cultural toolkit" dalla recente tradizione sociologica americana) usiamo gli strumenti - in questo caso i compositori, oppure gli stili, o quello che vogliamo - che ci permettono di comprendere ciò che ascoltiamo. Comprendere è anche riconoscere - credo - e dunque in qualche modo - forse forzoso - riconosciamo Grisey, Lachenmann, Ferneyhough o un Franz Joseph Albano qualunque nella musica che abbiamo ascoltato.
Mi chiedo se questo ponga dei problemi per tutti gli attori in gioco: per la musica in sé (sì e no), per il compositore che l'ha scritta (sì e no), per il compositore citato (sì e no), per chi la ascolta (sì e no).
Vediamo i due casi:
1) sì è un grossissimo problema: la musica non è originale, è scopiazzata; il compositore prende qui e là in malafede, strizzando l'occhio all'establishment compositivo per biechi obiettivi carrieristici; il compositore citato è stato oltraggiato (nel peggiore dei casi) oppure usato senza coscienza musicale (nel migliore dei casi); il pubblico non ha sorprese ed è tranquillo perché sa che il prodotto di cui fruisce l'ha da tempo digerito.
2) no, non è affatto un problema: la musica si appropria dello stile del compositore famoso per rendergli omaggio, o perché la vuole re-interpretare a suo modo, o perché è uscita così a causa dei processi che l'hanno creata; il compositore che la scrive è affettivamente o intellettualmente legato a quello stile; il compositore famoso è comunque omaggiato e ne si riconoscono le qualità; il pubblico riconosce ciò che ha sentito e nulla lo turba (questa è maledettamente simile a quanto affermato dianzi).
Nessuno dei due casi mi convince, per certi versi le risposte si assomigliano troppo.
Allora provo a ribaltare la domanda:
I compositori citati - ma potremmo aggiungere Schumann, Bach, Varèse, Beethoven… - a chi somigliano?
E noi, in quanto "new things", come ci poniamo? Andrea Agostini ha già trattato in un bel post - che andrebbe ampliato - il tema dei tratti in comune fra i compositori a noi coetanei. Questo mi sembra un ottimo punto di partenza, ma come ci poniamo di fronte ai tratti comuni con il recente passato musicale? Questo tema tocca anche la critica, perché alcuni si sentono dire "un Ligeti copiato male", e lì ci costerniamo, e come spesso accade un eloquio duro e appuntito rischia di non essere sufficientemente pronto ad uscire dalle nostre bocche.
Bene o male, originale o copiato, la questione del riconoscimento con l'esistente va affrontata. Se non altro per capire meglio cosa stiamo facendo mentre lo facciamo, senza mentire a noi stessi.
Veramente interessante - anche se, per rimanere in tema, mi piacerebbe molto ascoltare un Ferneyhough spettrale ^_^
RispondiEliminaMichele
Riguardo ai punti 1 e 2 direi: no entrambi.
RispondiEliminaPerchè non considero la musica "scopiazzata" e non considero l'artista come un soggetto in "malafede". Nè penso che sia valida l'affermazione "la musica si appropria dello stile del compositore famoso per rendergli omaggio".
La mia visione è che il compositore si ispira a duna corrente, ad uno stile. Non credo nell'individualismo assoluto, e trovo difficile che io possa dire qualcosa di completamente originale e del tutto nuovo rispetto a tutti gli altri.
Qualcosa, delle mie conoscenze, informazioni, del mio bagaglio culturale, è immerso in un flusso, del quale faccio parte.
Poi posso sempre discostarmi o avvicinarmi ad un certo stile.
In alcune situazioni posso anche essere originale: ma è inevitabile, per l'ascoltatore, cercare di inserire ciò che ha ascoltato nelle categorie della propria memoria.
Giusto a proposito di questo tema, vorrei segnalarvi un bell'articolo di Ian McEwan, "The originality of the species". Il testo è lungo, con digressioni su scienza, arte, società, ma vale secondo me la pena di leggerlo:
RispondiEliminahttp://www.guardian.co.uk/books/2012/mar/23/originality-of-species-ian-mcewan
McEwan critica l'idea di originalità come base per la nostra nozione di qualità (!), e di novità (!!). È un punto di vista radicale interessante, che in grande parte mi sento di condividere (critica al diritto d'autore, proprietà intellettuali, venerazione degli artisti), ma non fino in fondo: ad andare fino alla fine del ragionamento, uno deve dedurre che non c'è nulla da inventare, ma solo mondi da scoprire, cioè roba che, presto o tardi, se non è scoperta da noi, sarà scoperta da qualcun altro (McEwan fa molti esempi interessanti anche nel campo scientifico). A quest'idea, nel campo artistico, non riesco ad abituarmi: se non ci fosse stato Bach, chi altro avrebbe potuto esserlo?
Questione scottante! Se qualcuno mi dice: “Questo pezzo è un Ligeti copiato male”, potrei rispondergli: “Chissà quante volte il giovane Ligeti è stato accusato di copiare male Bartók”. Vale a dire: l’assimilazione della storia, e in particolare del passato recente, è un percorso creativo assai comune. Mi vengono in mente pochi casi (al momento, uno soltanto!) di compositori che siano apparsi sulla scena musicale venendo subito riconosciuti come qualcosa di assolutamente nuovo e unico.
RispondiEliminaMa questa riposta alle obiezioni dell’ascoltatore critico non è pienamente soddisfacente. Egli replicherebbe: “Non copiare gli altri, concentrati fin da subito sulla tua voce”. Benissimo. Ma forse la mia voce può educarsi, nel momento della formazione, intonandosi sugli armonici di una voce che sente vicina. Tralasciando il caso di citazioni e omaggi, che richiederebbe una diversa contestualizzazione, il punto diventa: la “non originalità” è giustificata in quanto adozione di un “modello”, ed è “accettabile” se inquadrata in un percorso di formazione destinato a sviluppare una voce personale. Assimilo Ligeti per diventare qualcos’altro. Il fine che giustifica i mezzi è proprio lo sviluppo di una “voce personale”.
In fin dei conti, volenti o nolenti, in genere ci riferiamo sempre a un paradigma autoriale: vogliamo identificare un compositore con un suo mondo sonoro personale e inconfondibile. La voce dell’autore. Ci interessano le opere, ma ci interessano altrettanto le persone che le hanno scritte (ricordo per contro una iniziativa, a suo modo “estrema”, del Divertimento Ensemble: proporre all’ascolto un brano senza dichiararne l’autore).
A tal proposito, grazie a Daniele per aver segnalato il saggio di Ian McEwan. Nel caso Darwin-Wallace ho anche trovato qualche analogia con la diatriba Schönberg-Hauer sulla paternità della dodecafonia: negli scritti di Schönberg ci si trova a volte a leggere delle rivendicazioni di paternità tecniche basate soprattutto su argomentazioni cronologiche. Parafrasando: «Ho pensato io per primo alla dodecafonia, e ci sono arrivato seguendo un percorso del tutto personale e originale» (vedi Stile e pensiero). Sono del resto concetti tipici della moderna cultura occidentale. Anche Lachenmann ne è consapevole: a proposito dell’impiego di suoni non ortodossi all’interno di un’orchestra tradizionale afferma (qui cito testualmente): «Col tempo questo può diventare una forma di manierismo. Oggi ci sono tanti compositori che portano dentro l’orchestra strumenti “altri”. Non ho niente in contrario se la cosa riguarda un nuovo aspetto del materiale, e se mi rubano gli effetti: pazienza! Ma quando si servono della lingua musicale che avevo sviluppato negli anni Settanta, trovo sia ridicolo e la cosa mi fa sentire a disagio».
Nota a margine: Andrea ha parlato di ascoltatori che riconoscono musiche “alla Grisey”, “alla Lachenmann”, “alla Ferneyhough”. Ascoltatori competenti di musica contemporanea, quindi… colleghi compositori, magari. È questo il nostro ascoltatore di riferimento (unico o privilegiato)?
Come sempre Rocco dici delle cose stupende!
EliminaSecondo me ogni compositore, in quanto inserito in una storia, in una società, in una cultura, semplicemente non può non rimanere condizionato, in misura variabile, dal passato. Praticamente nessun musicista - sia esso Stockhausen o un membro della tribù Banda Linda - cresce senza mai entrare in contatto con la nozione di suono che domina nel suo contesto. Non credo si tratti di plagio, scopiazzatura o citazione, semplicemente si assimilano forme, suoni e timbri che, anche se uno vuole comunque prescindere da questa tradizione, non riesce mai del tutto a sospendere. Probabilmente il tentativo più ardito di sospensione l'ha fatto Cage, ma anche lì secondo me si ritrovano le matrici di una tradizione, anche se affrontati in maniera negativa.
Del resto credo che tutta la tradizione rimasta fino a noi sia il più delle volte il risultato di un'approfondimento ulteriore nella materia "suono", e che quindi sia talmente legata ad esso da diventare innegabile da parte di chi fa musica con orecchie aperte. Per questo mi sembra che abbia poco senso la querelle su "Chi ha inventato per primo dodecafonia/pianoforte preparato/tecniche strumentali non ortodosse" e così via; probabilmente la penetrazione sempre più profonda nel suono ha portato più compositori a superare gli stessi nuovi limiti quasi simultaneamente perché era quello il nuovo orizzonte che si poneva alla sensibilità di allora.
Come diceva poi Rocco: commenti del tipo "questo è simile a X" vengono probabilmente da compositori o habitués, gente esperta di musica contemporanea, ma non credo che questo riconoscimento infici il nuovo compositore. Non si cerca sempre, quando troviamo qualcosa di ancora non assimilato, di vedere quali somiglianze ha con ciò che già conosciamo? Questo non significa però che il nuovo sia vecchio: nessuno – credo – guardando un tavolo direbbe che è un albero, ma comunque riconosciamo che entrambi sono fatti principalmente di legno!
Michele e Rocco ponete questioni interessanti e stimolanti! A Rocco rispondo ovviamente no, non è solo quello, era solamente un pretesto. Volevo più puntare l'attenzione sul lavoro che il nostro cervello - serbatoio di memorie e di esperienze d'ascolto, e continuo ri-processatore del flusso auditivo - fa per tentare di capire quel che le orecchie gli mandano. Ecco, forse la questione è capire se l'etichettatura finale o la disposizione in determinate categorie non sia soltanto l'unica, definitiva, ultima tappa di un processo cognitivo che è assolutamente attivo. La traduzione di un'esperienza psicoacustica in linguaggio verbale comunicabile non è facile, ed è sempre più facile pescare dal già noto e ricombinarlo in modo diverso allorquando sentiamo un qualsiasi pezzo a noi prima sconosciuto. La riconoscibilità è - per me - un valore positivo, ma sento che si debba sposare con un elemento di messa in prospettiva, di sguardo altro che la musica deve rivelare. Ecco.
RispondiEliminaChi dice "questo pezzo è un Ligeti fatto male" parte, a mio parere, da un assunto ben preciso, ovvero quello di aver in qualche modo «capito» Ligeti. E quando scrivo "capito" non intendo una conoscenza più o meno approfondita della sua opera, ma l'esistenza di una perfetta coincidenza del proprio pensiero con quello del compositore, cosa che è - se l'opera "nuova" non è evidentemente una scopiazzatura -, chiaramente, impossibile, forse addirittura arrogante.
RispondiEliminaDato che il 50% dell'esperienza artistica si determina nelle orecchie - o negli occhi - del fruitore una dichiarazione di questo genere implicherebbe non solo la conoscenza approfondita del termine di paragone - l'opera di Ligeti -, ma anche la comprensione di quel 50% del presunto plagiatore, ovvero del modo in cui egli / ella ha accolto l'opera del maestro, nonché capire come il proprio 50% influisce sul giudizio del tutto. Il che è, ancora è una volta, impossibile.
E quindi l'affermazione: "è un Ligeti fatto male" lascia il tempo che trova, come del resto il suo contrario: "Questo pezzo è una meraviglia, di una profondità incredibile, ci ho trovato la Bohème come Ferneyhough con una lacrima di Monteverdi".
Ecco, personalmente rimango del tutto indifferente a commenti di questo genere: in generale sono più interessato a dove una opera è proiettata piuttosto che a cosa è proiettato su di essa, a come interpreta il presente piuttosto che il passato. E questo ben sapendo che le due cose non sono slegate, anzi. Ma questa è un'attitudine del tutto personale.
Non intendo dire con ciò che non sia convinto come sia importante, e utile, la conoscenza della nostra storia, per carità, si tratta solamente di scegliere - quando si "critica" un'opera nuova - dove mettere l'accento: se sui modelli di riferimento oppure su come tali modelli siano stati assorbiti e interpretati - o, perche no? confutati - e messi in relazione, se sull'elemento tradizionale o sul germe di novità. Anche nel lavoro più smaccatamente ligetiano si trova l'elemento inedito (o inudito): ecco a me interessa quello. Al netto del modello di riferimento ciò che rimane è quella, seppur minuscola, idea. Me la prendo e la porto a casa.
Una inclinazione di questo genere, credo (e spero, sennò sono fregato), libera il pensiero da molti sclerotismi (quante volte a un concerto sentiamo come un pezzo nuovo, dalle sue prime note suoni, mettiamo, come un Donatoni e incanaliamo il nostro cervello interpretativo su questa convinzione?) e implica l'accettazione del fatto che i «materiali» di cui sopra possono essere utilizzati in modo del tutto estraneo al modello di riferimento: se l'operazione è condotta con coerenza, se ha un «senso» benissimo! Ringrazio l'autore per aver illuminato di nuova luce qualcosa che avevo pensato in un modo e soltanto in quello.
Se proprio non ci riesce, oh beh, allora chiedo al vicino di posto, il quale si sarà premurato di prendere il programma, qual'è il prossimo pezzo.
In realtà penso - forse estremizzando - che l'elemento più vitale e dinamico in un certo senso sia (dal punto di vista interpretativo come da quello creativo) il "fraintendimento" stesso. Prendendola dall'altro lato: la forza di un'opera sta nella sua capacità di scatenare le interpretazioni più disparate possibili, dunque, in sostanza, quella di stimolare il pensiero; tutto questo il più a lungo possibile nel tempo.
Insomma, come scriveva Michele, la tradizione diventa materiale fluido, in un certo modo libero dal suo creatore. Riprendo di Michele pure la metafora: da un albero ci si puoi fare sì un tavolo, ma anche una sedia, un armadio o una pallottola per ammazzare i vampiri.
Oppure si può lasciarlo li e stare ad ammirarlo.
Andrea, mi convince senz’altro ciò che scrivi: il riconoscimento come meccanismo percettivo, e come eventuale comoda scorciatoia per classificare ciò che è sconosciuto, selezionando in esso solamente il “già sentito” e trascurando le sue novità.
RispondiEliminaAggiungo una riflessione, sempre in prospettiva storica, provando a integrare quanto detto da Simonluca. Suonando Mikrokosmos, mi stupisco nel constatare che “è già Musica ricercata”. Questo involontario anacronismo non sminuisce affatto Ligeti (ovviamente Musica ricercata non si esaurisce in una copia di Mikrokosmos!), ma aggiunge qualcosa a Bartók. Riconoscere Bartók in Ligeti è indice dell’attualità di Bartók, non dell’invecchiamento di Ligeti.
Potrei trovare altri esempi: un certo Ravel non è già Vortex temporum? (e non solo perché Grisey deliberatamente cita Ravel!). Oppure, rovesciando il discorso: non c’è qualcosa di “già Francesconi” in Points On The Curve To Find?
Detto questo, devo confessare che ascoltando un brano che suona troppo “alla Donatoni”, nel quale non riesca a trovare qualcosa di ignoto, di stupefacente e misterioso, o anche solo di inspiegabile e bizzarro, provo anch’io un moto di rifiuto! Per me, la questione rimane quindi aperta…