Il gesto musicale è un argomento molto sfaccettato, che si può declinare in diversi modi. Parliamo di “gesto del compositore” quando ci riferiamo a una collezione di figure musicali a lui proprie, e che ricorrono variamente nel corpus delle sue opere. Parliamo di “gesto strumentale” quando associamo certe figure, o passaggi, o topoi ad uno strumento specifico piuttosto che a un altro. Parliamo di “gesto dell'interprete” quando individuiamo nell'esecuzione di questo o di quell'altro strumentista un elemento performativo che lo differenzia e lo caratterizza specificamente rispetto agli altri, e – molto probabilmente – ne costituisce proprio l'essenza. Infine ci riferiamo ad un “gesto teatrale” quando la musica di un certo compositore (vedi Kagel – e per questo rimando al post di Raffaele sul Teatro – ma anche Grisey!) si appropria del mezzo teatrale per ampliare ed arricchire il linguaggio artistico.
Il “gesto” è forse un oggetto seminale, lo ritroviamo in moltissimi campi differenti: la danza, il teatro, lo sport, ma anche la vita quotidiana (e per questo rimando all'opera dell'antropologo e linguista Desmond Morris). Il gesto è anche la parola in quanto atto performativo (e qui mi riferisco alla teoria degli atti linguistici di Austin). A causa di un gesto scoppia la pace fra le nazioni, o una guerra viene prolungata; a causa di un gesto sbagliato al momento meno adatto la nostra vita può cambiare – l'automobilista decide di bere quell'ultimo bicchiere prima di girare la chiave della macchina e noi ci troviamo nel reparto ortopedia, o nel peggiore dei casi quell'automobilista siamo noi.
Ad ogni modo il gesto forse c'è un po' dappertutto, acquista mille forme, è pervasivo come il raffreddore. Però si riempie di senso quando si unisce a qualcos'altro. Diventa segno quando instaura una relazione con un altro, con un osservatore, con un interlocutore, con un oggetto, con un corpo.
Il gesto musicale non sfugge da tutto ciò. Per esistere deve sposarsi con qualcuno, deve trovare un partner. Anzi, ne deve trovare tre: il suo matrimonio è trigamico e perfettamente legale.
Esso infatti si unisce con l'occhio, con la mano, con l'orecchio di chi scrive, di chi suona e di chi percepisce.
Il compositore che lavora col gesto scrive e fissa sulla carta le note, i profili, le linee che lo identificano, facendone il “materiale” col quale lavora; lo vede con i suoi occhi mentre lo sta fissando sul medium prediletto. Allo stesso tempo lo sente con le orecchie del suo cervello, lo immagina visualmente suonato dallo strumentista entrando nelle sue mani e nelle sue braccia e nei suoi piedi, e cerca di capire se un terzo osservatore può attribuire significato a tale immagine oppure no, forse sapendo che nessuna delle tre istanze è slegata dalle altre – ma nemmeno importa pretendere di sapere certe cose.
Lo strumentista che decide di suonare un pezzo in cui il gesto è l'elemento fondante, lo vede e può prenderne atto; ad ogni modo suonerà la musica propostagli secondo le proprie competenze, differenze, sensibilità, espressioni ed esperienze. Comunque in quella situazione accadrà qualcosa di cui tutti abbiamo coscienza: passando attraverso dei filtri, dei trasduttori visuali, chimici, muscolari le note scritte diventeranno suoni. La meccanica pone un ponte fra il simbolico e l'acustico.
Peraltro parlavamo l'altra sera – in occasione di un dialogo in pubblico che precedeva un concerto – dell'aspetto meccanico nella musica di adesso. Forse la meccanica – nella forma, nella musica, nel tempo (un soggetto sul quale dovremmo aprire uno spazio di riflessione perché sarebbe molto interessante) – riguarda anche i muscoli che il violoncellista flette per tirare l'arco, e a volte la coscienza di tale azione può diventare parte integrante del pensiero compositivo – con i rischi e i pericoli che ne derivano.
L'osservatore o l'ascoltatore non vedono il gesto sulla carta – a meno che non chiedano la partitura –, ma lo incontrano attraverso il musicista.
Ora, qui è necessario fermarsi un attimo e aprire un discorso sulla musica che fa del gesto il materiale sul quale lavora.
Poniamoci le seguenti domande: se il gesto è un elemento, quanto spazio temporale occupa? È grande, è piccolo, è medio? Quale è il suo ruolo per la costruzione della forma musicale? Come si pone all'interno della composizione? È poi vero che la musica risultante ne sarà il riflesso prolungato nel tempo? Infine, ma ne abbiamo davvero bisogno? Non è un vicolo cieco nel pensiero di un compositore? Oppure può essere stimolante perché forse può portare ad altro?
Non saprei rispondere. Forse è necessario aspettare un poco e fare fermentare il tutto, prendendo quel che viene senza nessuna pretesa di trovare risposte, senza farsi o produrre illusioni. Coscienza, riflessione, distacco. E un altro post quando i tempi saranno maturi!
Andrea. Il post evidenzia molti aspetti che vedo nella tua musica. Il gesto come meccanica fisica ma anche immaginaria, una particolare immersione nel suono che passa attraverso i passaggi che si compiono tra l'idea e la vibrazione del corpo. Mi sembra che il gesto come lo intendi tu ha diversi gradi, che lo analizzano nel suo farsi. Tutto ciò é molto bello. Istintivamente mi viene da pensare che, come tutte le categorie, anche quella di gesto é riduttiva. Ma può anche essere una maniera di nominare e fissare qualcosa. Nel fissare si fa il pezzo, fissando con rigore quell'aspetto che ci scappa e che nell'inseguirlo crea la forma.
RispondiEliminaEric. La categoria è riduttiva, e il nominare e il fissare un certo oggetto può effettivamente avere i suoi rischi; si rischia di semplificare invece di accettare, si rischia di possedere invece di costruire una relazione. Il cercare e il fissare è strumentale al rapporto di crescita che puoi instaurare coll'oggetto "gesto" - in questo caso, ma potrebbe essere qualunque altra cosa che ci piace e ci interessa avere a che fare. Non conosciamo mai gli esiti di tale relazione, l'interessante sta nel costruirla e nel costruirsi con essa, e immaginare come può essere - e lasciarsi anche sorprendere.
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