La musica e l’arte non bastano a se stesse se arrivano a scardinare il sistema di coordinate fondato sulla conoscenza e l’esperienza del ricevente, cosa non rara confrontandosi con il nuovo. In questo caso sorge la necessità di avvalersi anche di parole. L’errore del passato fu credere che la musica non avesse, in quanto arte autonoma, bisogno di un commento esemplificativo; un’illusione che non corrispondeva ai fatti. Entrambe, sia l’arte che la musica, non possono fare a meno della parola...
(Mauricio Kagel)
Ho l’onore con la presente riflessione/retrospettiva di aprire il nuovo anno nuthinghiano. Questo articolo è fatto di riflessioni personali, di idee, appunti che mi hanno accompagnato in passato per i miei lavori.
Non sarà un post “una tantum”, volendo dare un minimo di storicità e considerata l’ampiezza, la varietà e la complessità del topic mi sembra doveroso suddividerlo in una serie di micro post/riflessioni a venire.
Il rapporto fra musica e teatro è qualcosa che mi affascina praticamente da sempre e che mi tocca intimamente, avendo in passato sviluppato lavori per me importanti e soprattutto in questo periodo, essendo il mio progetto attuale un lavoro per l’appunto teatrale, necessito di scavare profondamente e di accendere maggiormente la mia curiosità intorno a questa tematica.
La mia riflessione ruota intorno alla complessità e allo stesso tempo alla diversità insita nel gesto, nella parola, nel suono. Teatro vuol dire spazio. Respiro. Non necessariamente di tipo consequenziale. La libertà che ne risulta rende ogni evento qualcosa di unico. Sono pochi gli esempi dell’ultimo cinquantennio dove esiste una coniugazione pressoché coerente fra parola e suono. Succede spesso che una delle componenti sia al servizio dell’altra.
Una delle figure del ‘900 che per me ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora l’emblema del compositore moderno in termini di spinta verso un rinnovamento nell’ambito del teatro musicale, è senz’altro Luigi Nono, pioniere per tanti versi, che dalle riflessioni di Darmstadt ha profuso un significativo impegno per trovare soluzioni concrete in funzione di una rivoluzione artistico-espressiva, sfociata nel suo scritto Possibilità e necessità di un nuovo teatro musicale.
Nei lavori che Nono ha elaborato, su tutti “Intolleranza 1960” e “Prometeo”, intravedo elementi moderni e assolutamente attuali, a tratti modulati su componenti di critica feroce, elementi che come un filo rosso mi conducono a pensare ai lavori di un altro grande esponente del teatro musicale che personalmente apprezzo molto: Mauricio Kagel, il quale affermava "tutto ciò che ascoltiamo potrebbe anche essere diverso".
Egli si ribellò con vigore nei confronti di un atteggiamento quasi “consumistico” del teatro, affermando che il pubblico fosse troppo concentrato sull’impianto scenico, e dopo le esperienze di Darmstadt assunse addirittura toni polemici nei confronti dell’opera, asserendo che era necessario attribuire agli eventi teatrali lo stesso grado di "densità" attribuito alla musica.
È dalle sue considerazioni e riflessioni che nasce un nuovo modo di intendere il teatro: libero, dissacrante, assurdo, fortemente influenzato dalle esperienze avanguardistiche di Beckett e Ionesco.
Le estrose e "gestuali" trovate kageliane mirano molto spesso a porre una sorta di squilibrio tendente alla distruzione dall’interno degli stereotipi dell’arte teatrale, mettendone a nudo i vari meccanismi.
Per certi punti di vista ciò lo accomuna al teatro tagliente e crudele di Artaud, alcune similitudini di fondo sono tangibili nell’approccio al linguaggio e i suoi relativi trattamenti.
Artaud basò i suoi lavori su un linguaggio estremamente fisico, carnale, dinamicamente concreto, polivoco, incentrato sul gesto e non sulla parola, sviluppato polidimensionalmente “su tutti i possibili piani e verso tutte le direzioni”, conducendo le teorie simboliste e surrealiste al loro limite più estremo. Una sorta di metafisica del linguaggio.
Mi piace ricordare la definizione che ne dava Artaud, il quale suggeriva di considerare il linguaggio sotto forma di “incantesimo”, asserendo che l’interpretazione e la rappresentazione dovrebbero essere ritenute come i segni tangibili di un linguaggio che invece è “invisibile e segreto”, matrici di un teatro quasi emotivo.
Personalmente credo che un “linguaggio articolato” possa ancora essere tutt’ora un poderosissimo mezzo espressivo, attraverso il quale poter coniugare con straordinaria e mordace libertà elementi gestuali con aspetti genuinamente sonoro-testuali.
Anche in Kagel siamo in presenza di una sorta di metafisica, che induce, in maniera strettamente sofisticata, ad esternare ciò che il linguaggio di solito non esprime, attraverso gesti, suoni, parole senza consequenzialità logica. Ciò comporta un uso del linguaggio, o meta-linguaggio in modo semanticamente difforme, insolito, germinando particolarità espressive del tutto astratte. E credo sia proprio questa la cifra di lettura e la forza dirompente dei lavori teatrali di Kagel, grazie anche al fatto che egli si tenne ben distante dai modelli di linearità e equilibrio dell’avanguardia post-Darmstadt, approdando invece, in maniera del tutto personale, ad una sorta di "teatro strumentale", inteso come “teatro assoluto”, dove le consuetudini teatrali e musicali, comprese le prassi esecutive, perdurano solamente se liberate dal loro senso originario.
Il musicista che si appresta ad eseguire un lavoro di Kagel di questo genere si troverà pienamente coinvolto non solo dal punto di vista musicale, ma anche da quello attoriale, rendendolo un interprete tout-court e totalmente partecipe al “dramma”, venendo considerato un “unicum” col suo strumento, trovandosi di fronte a partiture dove il compositore suggerisce indicazioni riguardanti anche movenze espressive e corporali da eseguirsi in scena.
Trovo interessante questo modo di liberare azione scenica e musica dai loro significati e significanti, dai loro ingranaggi, dalle loro macchinazioni rappresentative: gesti, azioni, fonemi non sono interpretazione, ma un ritratto, magari leggermente deformato di loro stessi.
Uno dei lavori di questo genere è senz’altro Aus Deutschland del 1981, un gioiello dall'intrinseca qualità linguistico-musicale basata su riflessioni storico-sociologiche della cultura romantica tedesca.
Altri lavori in questo medesimo filone sono Die Erschöpfung der Welt, Mare nostrum, Staatstheater, di cui non vi è abbastanza spazio per discutere, ma che consiglio vivamente di vedere e ascoltare.
Non a caso gli esempi che ho proposto, fanno capo ad un terreno, quello tedesco, che ha prodotto significative rivoluzioni nel campo del teatro musicale sia per riflessioni dal punto di vista musicale-filosofico che da quello squisitamente teatrale, la stessa definizione “Musiktheater”, oramai usata a livello internazionale, deriva dal tedesco, il che fa comprendere quanto sia stata radicale la scelta dei compositori germanici nello scegliere temi e modalità sulle quali lavorare, le cui radici probabilmente affondano in Schönberg per arrivare ai moderni esperimenti di Enno Poppe e Olga Neuwirth.
Mi chiedo se, come nel caso dei teatri di Nono e Kagel, anche oggi si possa effettuare un’operazione di meditazione e divulgazione espressiva del reale e del sociale, oltre che effettivo confronto fra lessico artistico e tecnologia.
Ritengo che la parabola del teatro musicale contemporaneo debba partire da una profonda riflessione su cosa sia la scena, lo spazio e il gesto, ma in rapporto diretto, profondo e curioso col teatro stesso, rapporto che mi sembra dissolto negli ultimi decenni e poco proficuo per molti aspetti, soprattutto dal punto di vista della coerenza stilistica, dove le identità della creazione anziché fondersi sembrano contrastarsi. E dove la “totalità” artistica sembra solo un’opzione lontana.
to be continued
Caro Raffaele. Post ricchissimo, grazie. Molto bello e fa riflettere. Quando parli di divulgazione espressiva del reale e del sociale condivido appieno. Grazie.
RispondiEliminaBel post Raf. Sollevo un punto più prosaico: se i musicisti devono mettersi in gioco da un punto di vista attoriale, devono averne la forza e la competenza (altrimenti il rischio è, invece di sfumare il confine tra azione e suono, quello di accentuarlo!). Per fortuna in molti casi è così, e conosco musicisti bravissimi, in cui questa qualità è innata; ma mi chiedo (e non è una domanda retorica: davvero non lo so), più in generale: esiste una qualche preparazione specifica, o tutti i musicisti che si mettono in gioco come attori acquisiscono questa competenza "sul campo"?
RispondiEliminaAggiungo, a latere: le tecnologie e gli spazi di cui parli sono in stretta relazione, nel senso che l'interazione delle tecnologie con gli spazi classici crea nuovi spazi e spazialità (si pensi al cinema, e ai vari modi di servirsi oggi del video).
Daniele, sollevi un punto importante. Al quale sinceramente non so trovare una riposta, considerando anche che mi pongo le tue stesse domande.
RispondiEliminaConosco musicisti che dopo un atteggiamento iniziale riluttante nei confronti di "esibizioni" attoriali hanno poi capito e apprezzato il "mestiere" fino a prenderci gusto.
Quindi credo anche che ci voglia un minimo di sfrontatezza nell'abbattere determinate barriere, anche da parte dei compositori. Diciamo che insistere un pò con gli strumentisti a volte potrebbe risultare molto proficuo!
E' vero che le nuove tecnologie creano nuove relazioni spaziali, e magari anche nuove dimensioni. Basti solo pensare a quanto interessante sia la spazialità trattata come contrappunto, come coerenza, come opportunità espressiva...tramutando il tutto in vera e propria drammaturgia, per non parlare di quanto polidimensionale possa essere un utilizzo radicale della componente video.
Anche per questo intravedo nel teatro musicale ancora tante possibilità di ricerca espressiva e non.