Torino, RaiNuovaMusica. Bella rassegna, bel cartellone e infatti venerdì sono andato a sentire il concerto di apertura (non è proprio vero, sono andato alla prova generale ma ai fini del post fa lo stesso). Un monografico su Berio, per celebrare il decennale dalla scomparsa - Eindrücke, Requies, Sinfonia, programma lautissimo insomma, e sono uscito contento dall'Auditorium: ma con opinioni diseguali sulle tre portate, e un tarlo di riflessione che vorrei condividere con voi.
Sinfonia è un capolavoro assoluto, geniale, toccante, persino divertente - qualità rara da queste parti; suona benissimo anche oggi e, a me pare, non sente minimamente il peso degli anni. Potrei ancora preferirle Coro, ma siamo comunque nell'Olimpo della musica del Novecento. Eindrücke no, non mi piace. È macchinoso, ideologico, grigio, non ha fantasia, tenta di dimostrare un teorema ma finisce solo per asserire senza contraddittorio la verità di un predicato. Requies invece come fa a non piacermi? Mi faceva impazzire a vent'anni, non lo ascoltavo forse da dieci e sì, certo, mi piace ancora: è dolce e lucido come certi pasticcini in foglia d'argento che ho comprato a Mysore, suona bene che meglio non si può, tutte le armonie, tutti i gesti, i glissandi dell'arpa e l'orchestrazione mahleriana, tutto quanto è bellissimo e per giunta l'occasione aggiunge un po' di commozione. Però mi manca qualcosa.
Ecco, questo è il punto: mi sembra che la parabola che congiunge questi tre lavori, portando da un'opera incredibilmente visionaria di fine anni '60 a un'opera ostentatamente radicale ma anche pedante di metà anni '70 a un'opera che direi neoclassica nella sua bellezza ricercata ma in definitiva convenzionale dei primi anni '80, mi sembra dicevo che questa parabola assomigli al cammino che molta musica ha percorso durante lo stesso quindicennio: traghettandoci dall'esperienza bruciante, controversa ma significativa delle avanguardie, attraverso l'invenzione di un nuovo accademismo, fino all'edonismo e al disimpegno della "musica che finalmente suona bene". Certo, sto semplificando e generalizzando: e non pretendo di enunciare nessuna verità forte - è solo, lo ripeto, una riflessione che ha bussato alla mia porta all'uscita dalla prova generale. Però, ed è uno dei miei chiodi fissi, mi sembra che ancora adesso stiamo vivendo nel mondo della "musica che finalmente suona bene": in positivo ma anche in negativo, quando tutti i migliori direttori artistici d'Europa si fanno sedurre dalla moda del saturazionismo, che al vuoto della musica troppo bella non trova risposta migliore del vuoto della musica molto brutta - e sì, anch'io facevo il punk nichil-esistenzialista al liceo, ma primo avevo diciott'anni e secondo forse in un'intervista avrei saputo dire qualcosa di più interessante che "anche Bach era un punk nichil-esistenzialista".
Dove ci porta tutto questo? In definitiva nel luogo al quale torno sempre: qual è il senso e qual è il ruolo della nostra musica oggi? Sinfonia è Sinfonia anche perché ha saputo dialogare compiutamente e intelligentemente con il mondo che la circondava, Claude Lévi-Strauss, Martin Luther King, il postmoderno, l'iconoclastia e le utopie degli anni in cui è nata; e viceversa negli anni in cui è nata questo dialogo tra la musica d'avanguardia e un contesto culturale più vasto esisteva, funzionava, Kubrick metteva Ligeti nei suoi film e i Beatles ascoltavano Stockhausen e Cage andava in televisione e tutto il solito repertorio di aneddoti che continuiamo a ripeterci. Così si ripropone quotidianamente il confronto amaro tra ciò che la nostra musica potrebbe essere e ciò che è: vorrei che sapessimo declinarlo non (non solo) in nostalgia per una mitica età dell'oro che non abbiamo visto, in fondo ogni generazione ha i suoi miti fondativi e il suo Kali Yuga, ma anche in una riflessione feconda e - chissà, magari, perché no, anche sì, e sarebbe ora - in un moto di rinnovamento delle istituzioni, delle musiche, delle menti. L'ho detto e lo ridico e lo ridirò: o ne saremo capaci, nonostante i tagli alla cultura e tutte le altre difficoltà, o niente di tutto questo ha senso.
Sull'organizzazione e le scelte di Rai Nuova Musica e quelle della Rai mi riservo alcune riflessioni, quando il festival sarà terminato (a cominciare dalla mancata trasmissione via Radio).
RispondiEliminaSinfonia è un capolavoro, e su questo c'è poco da obiettare. Molte composizioni di oggi, ma direi di diverse annate precedenti sono lontane dal mondo che Sinfonia ha aperto, e che forse andrebbe ripercorso e approfondito meglio.
Sul discorso della musica di oggi: anche i compositori devono lavorare a fondo per creare quel contesto di dialogo, che spesso manca alle opere.
Allo stesso tempo, come si fa a dialogare in un ambito così ristretto come quello di 3 concerti all'anno?
Una riflessione incisiva che mi sento di sottoscrivere. Aggiungo: dalla musica "che suona bene", portata all'estremo, abbiamo però anche ricavato dei capolavori. Non è secondo me il caso di Berio, i cui capolavori sono in effetti quelli che dialogano con il mondo che li circonda. Giustappunto, questo dialogo (che tu giustamente individui come elemento cardine dell'appeal di Sinfonia) non è un'eredità delle avanguardie in generale, è un'eredità del postmoderno nello specifico. E su questo non sono in realtà molto d'accordo con Paride: guardandomi intorno, non ho (per fortuna) l'impressione che sia un'eredità completamente dimenticata...
RispondiEliminaRiflessione molto bella Andrea; condivido tutto quello che dici, anche nei giudizi sulle singole opere. Non ho capito bene cosa c'entri il postmodernismo, categoria per me molto dubbia...DIrei più sobriamente, una curiosità rispetto all'altro, specialmente a discipline quali l'antropologia che magari hanno anche loro stesse in primis più appeal che non, esagero, la neurobiologia; cioè non solo parlano dell'uomo, ma parlano dell'uomo all'uomo. Ed è necessario perlare dell'uomo attraverso dei media che, a differenza degi grandi vecchi, noi non abbiamo più; un certo tipo di televisione e di radio, ed esempio. Oggi abbiamo la iperdemocratica internet, che non propone nulla perché non filtra nulla; oovero propone un tutto che per assurdo può venire totalmente bypassato. Dunque ancora una volta io vedo la società, i suoi mezzi di produzione e gli artefatti artistici come un tutt'uno; in questo quello che tu chimi saturismo è perfettamente coicidente con questo rumore di fondo dell'iperinformazione autistica, e dunque "socialemnte" e antropologicamdnete fondato oggi. Certo, poi non vi si trova una pluralità di layers che rendono interpretabile l'opera a seconda di chi l'ascolta, dei gradi di profondità di "compresnione" dell'opera; e questo è probabilmente il lato oscuro della faccenda e quello che i capolavori che citavi invece hanno per costituzione. Come siamo dunque noi oggi costituzionalmente? rumorosi fino all'afasia? o selettivi multistrato? siamo sicuri che sempre i posteri debbano formulare l'ardua risposta?
RispondiEliminaÈ vero, tre concerti all'anno sono pochi e bisogna lavorare per averne di più: per la collettività, prima che per noi.
RispondiEliminaMa occorre anche essere abbastanza pragmatici per capire che il mecenatismo di stato è alla fine, e che molto probabilmente nel prossimo futuro ci saranno meno concerti, meno festival, meno commissioni. C'è poco da fare, l'età dell'oro è finita da tempo. Se vogliamo che la nostra musica valga qualcosa dobbiamo immaginare nuove strategie produttive e comunicative, e non basterà lamentarci del poco che abbiamo mentre cerchiamo di aggrapparci agli ultimi potentati che non sono ancora andati a fondo, cercando di galleggiare un po' anche noi - e qui, credetemi, non sto puntando il dito contro nessuno: semmai, parlo di me stesso.
Dobbiamo diventare capaci di parlare al nostro tempo come facevano Berio e Ligeti: e come oggi forse sanno fare altri, digiuni di teoria musicale ma più attenti ai segnali minacciosi che vengono dal mondo. E, Daniele, non è una questione di postmodernismo: il discorso secondo me è più ampio e più sottile, e ha a che fare con la risonanza che la nostra produzione musicale non ha tra chi avrebbe tutti gli strumenti intellettuali e culturali per leggerla; ha a che fare con la constatazione che i più colti e scafati tra i miei amici non musicisti, quelli che seguono l'arte contemporanea e la letteratura e il cinema d'avanguardia, quelli che hanno sentito Berio e Stockhausen e Riley, non hanno nessuna idea e non riescono a cogliere niente di dirompente, niente di significativo nella musica che facciamo e che fanno i nostri insegnanti e che più spesso incontriamo ai concerti che ascoltiamo. È troppo comodo dare tutta la colpa a loro, alle istituzioni, alle generazioni passate. È l'ora di un grande, collettivo, generazionale esame di coscienza: e di scelte radicali, scomode, dolorose.
Postmodernismo è una categoria dubbia e senza contorni, ve lo concedo. Ma molti tra gli aggettivi e sostantivi che avete usato, per me rimandano direttamente a quest'idea. Se vi pare fumosa, basta riparafrasare eliminando la parola: la questione rimane. Andrea, secondo me stiamo parlando di due cose diverse. Un conto è "parlare al proprio tempo", un conto è "porsi in dialogo con il proprio tempo". Non è una differenza sottile (benché lo sembri linguisticamente). Chi fa l'uno non necessariamente fa l'altro. E paradossalmente ho l'impressione (ma è davvero un'impressione, al limite della boutade, e aspetto di essere smentito da qualcuno dei nostri "padri") che Sinfonia (fine anni Sessanta, e fatico a chiamarla musica "contemporanea"…) quasi parli di più alla nostra generazione che a quelle prima… (?)
RispondiEliminaè che rispetto a 50 anni fa, non abbiamo più un "nostro" tempo, un tempo nei confronti dl quale assumere delle linee di continuità/discontinuità nei confronti di una tradizione. Abbiamo un iper-tempo, sempre contemporaneamente storico e astorico, perché attinge veloce a bacini lontani millenni e secondi. Dunque il nostro tempo è immediatamente tutto quello che c'è stato e quello che è. Difficile parlare a queso tempo; difficile dialogarvi, se non come un monologo di fronte a un se stesso schizofrenico. Nessuna scia da valorizzare, nessun sentiero da approfondire, nessuna via più forte di altre; rimane dunque un'autoaffermazione del nostro gusto, cioè della nostra selezione di questo tempo immane; ed anche questa credo sia una risposta al nostro tempo.
RispondiElimina... e però è troppo forte la tentazione di pensare che il nostro tempo sia diverso da tutti gli altri. C'è chi parla della morte della musica, e mi fa solo incazzare. Carlo, il tuo punto di vista mi intriga molto di più, ma lo stesso non riesco ad essere d'accordo. Il problema non è la musica e non è il nostro tempo. Le altre arti sanno dialogare con il nostro tempo. Le altre musiche sanno dialogare con il nostro tempo. Noi per qualche motivo da una trentina d'anni non siamo più capaci. Ci siamo ritirati, richiusi, ripiegati, siamo scappati, non so, non lo capisco, ma qualcosa dev'essere capitato e qualche errore dev'essere stato fatto: se no mi spieghi perché negli anni '70 Bill Viola lavorava con David Tudor, e negli anni 2000 con i Nine Inch Nails?
RispondiEliminaPoi se mi dite che è solo una mia fissa lo accetto. Molti sono angustiati dalla mancanza di pubblico, per me è un falso problema. La nostra è musica di nicchia e mi va benissimo che abbia un pubblico di nicchia. Per me la questione è quali semi possiamo gettare, e che frutti potranno nascerne. La cosa che temo di più è che i semi siano sterili e i frutti non ci siano.
"I frutti puri impazziscono"; frase splendida decontestualizzata da una poesia non altrettanto memorabile. Capisco il punto Andrea, anche se sul fatto che le altre arti sappiano dialogare con il nostro tempo non sarei d'accordo, almeno nella pittura, che è quella che conosco meglio; e neanche la poesia. Ma, paradossalmente, come giustamente tu rilevi, non è nemmeno questo; è piuttosto il mezzo di fruizione che è determinante (in questo il caro Viola da Tudor ai NIN ha fatto un bel passo indietro, ahahah!); cioè noi siamo in una specie di ostinazione, dettata anche da condizioni di mercato date dalla professione, in questa scrittura, o iperscrittura poco importa, ma che ha come fine una fruizione che non esiste più, cioè il concerto. Il concerto così come lo abbiamo vissuto fin'ora, non esiste, cioè è retto in piedi solo da un sistema che si autogenera. Non c'è giudizio in questo, ed anzi è necessario proteggere le differenze, ma penso che questo non sia il modo, come tu dici, per dialogare con il nostro tempo, come tu lo intendi. Dunque, nuove forme di fruizione e di produzione. L'idea che ti dicevo tempo fa di costruire un luogo fisico in cui proporre la differenza, già per il fatto stesso di crearlo essere in dialogo con un mondo che per affermarsi si autocostruisce e costruisce la propria differenza, ecco queso mi sembra una prima risposta.
RispondiEliminaEntro un pò in ritardo in questa interessante discussione. Rivengo su quello che dice Andrea riguardo alla musica del nostro tempo. Carlo ha ragione, difficile definirla, ma in fondo é quella musica che ascoltiamo e facciamo e soprattutto amiamo adesso. Questo un pò mi basta per dire quale é la musica del nostro tempo. Trovo plausibile la morte del concerto, però trovo la condizione di ascolto classica abbia anche delle importanti caratteristiche alle quali non vorrei rinunciare. La possibilità di gustare il piacere della musica é per me importantissimo. L'idea di luogo é nell'aria da molto e tutti sappiamo quanto questo dipenda dalla politica, dato che in poche parole, come compositori non abbiamo ne soldi, ne mercato, ne abbastanza pubblico per pagarcelo. Con la conseguenza che la politica, in Italia in particolare, é molto mobile. Forse ci costruirebbe un luogo, ma poi lo finanzierebbe con il contagocce, facendoci passare dalla padella alla brace. Io sono piuttosto per innovare le forme di produzione piuttosto che cambiarle radicamente. Mi piacerebbe che si andasse a concerto come si va al cinema.
RispondiElimina+1 per "Mi piacerebbe che si andasse a concerto come si va al cinema"
RispondiEliminae +1 per il fatto che l'ascolto classico ha delle qualità a cui rinuncio malvolentieri. personalmente credo che sia disastroso per la musica (tutta, anche il rock'n'roll) un ascolto del tipo bevo una birra, sto un po' dentro un po' fuori, parlo con i miei amici eccetera. D'altra parte anche in un concerto da rock club (negli stadi no, ovviamente è un'altra cosa, ma qui entrano in scena paradigmi sociologici e antropologici completamente diversi) l'ascolto è informale, ma attento e relativamente silenzioso...
... e al cinema (voglio dire, se il film è decente, non Hulk al sabato sera nella multisala da truzzi) la gente sta in silenzio religioso...
Sì, +1 al "Mi piacerebbe che si andasse a concerto come si va al cinema". Però nel cinema la chiave è la fruizione visuale (a cui siamo più abituati e quindi meno faticosa). In questo senso, stiamo invalidando la definizione pasolinana per cui la cultura è una "resistenza alla distrazione"? Non c'è giudizio di valore, è solo una constatazione. La soluzione dell'oggi è quindi tornare a una rinnovata Gesamtkunstwerk? Forse sì. Oggi il fatto di non essere stimolati visualmente e auditivamente nello stesso tempo ci risulta sempre più insopportabile? Non c'è futuro sociale nella musica "pura"? Per carità, un concerto non è mai musica pura, però è l'evento sociale che si avvicina certamente di più.
RispondiEliminaInoltre: nei concerti rock c'è un altro meccanismo che entra in gioco: il fatto di conoscere (a memoria) le canzoni, il fatto di essere un vero "fan" di un brano o di una band. Questo è sostanzialmente sparito dalla scena della musica contemporanea; nei pochi casi in cui rientra in gioco, l'ascolto ne è sempre positivamente condizionato (non che mi sia successo spesso negli ultimi anni, ma penso ad ascolti live di brani come come Sinfonia, Speakings, Kontakte...).
+1 anche per me al "Mi piacerebbe che si andasse a concerto come si va al cinema". Anche perché al concerto la musica la vedo! Cioè solo attraverso la visione della musica, di chi la produce, dal solista alla grande orchestra, ho l'impressione che il concerto sia un fatto sociale; faccio fatica a considerare l'esistenza in qualsiasi epoca di una musica pura, cioè slegata da un contesto sociale. Mi viene in mente quella definizione splendida di "Sonata": "un discorso garbato tra persone noiose"; certo è un'esagerazione, ma rivela un contesto; così come lo stesso discorso potrebbe essere valido per i canti religiosi etc. Cioè la musica, almeno fino all'avvento di un supporto riproduttivo casalingo, non è mai stata "pura". E per quanto mi riguarda, ai concerti la cosa più bella sono le persone che condividono con me quell'oretta, con le quali sento di condividere una passione che crea socialità, piuttosto che la meraviglia e la gioia di un ascolto solipsistico, momento di verità spero condivisa. A voler esagerare, tolto un interesse "magico" per l'ascolto dal vivo, per il suono che si frange in uno spazio specifico etc etc, il programma del concerto è sempre meno stimolante della conoscenza delle persone che si riuniscono a sentirlo. Ma, chiaramente, questa è una provocazione...
RispondiElimina@ Paride (e un po' OT):
RispondiEliminanon so del concerto Berio, ma il concerto di stasera di RaiNuovaMusica credo sia radiotrasmesso.
Salve, ho scoperto questo blog da poco, ne ho lette alcune pagine in una nottata. Vi faccio molti complimenti. Sono uno studente di composizione, per quanto disastroso. Però che Sinfonia di Berio sia straordinaria l'ho percepito anch'io nel mio piccolo, e mi è successo con ...Sofferte onde serene... e con brani di Scelsi e altre cose. Va beh. Mi inserisco nel discorso perché mi interessa molto questo scarto che ha la musica contemporanea rispetto alle altre avanguardie di altri campi artistici. Anche se non so bene se questo sia vero. In uno dei vostri post iniziali si citava Kubrick e anche sopra viene citato, ma questo credo che sia l'errore di valutazione. Kubrick è pop, le sue opere inoltre funzionano su più livelli, piacciono al cinefilo e all'ignorante di cinema. La musica di Ligeti è funzionale ai suoi film, così come altre musiche d'avanguardia sono state funzionali ai Velvet Underground o ai Beatles. In Italia scontiamo un forte ritardo rispetto all'istruzione e non so come sia la sitauzione in altri paesi, ma a parte il circuito delle persone appassionate, la musica che fate e la musica di Berio o di Romitelli ( qualcuno disse che si aspettava che Romitelli suonasse più vicino di Bach ) è "intrinsecamente" lontana da ciò che può piacere a un essere umano. Lasciamo stare Bach e Dante che sono "universali", la cui bellezza arriva anche a chi non legge e non ascolta. Prendiamo Joyce, che mi ricordo fu preso come termine di paragone. Io ho 27 anni e ancora non ho il diploma di maturità, ho la terza media per capirci, e l'Ulisse lo lessi intorno ai 18. Non capii nulla ovviamente di quanto straordinario sia, del lavoro linguistico che c'è dietro, ma me lo sono goduto lo stesso, perché funziona su più livelli, è comprensibile. Schoenberg non è l'equivalente di Joyce, non so se funziona su più livelli, non so se dipenda dalla musica come arte, ma sta di fatto che il discorso che porta avanti non si capisce. Questo mi pare uno scoglio insormontabile. Non stiamo parlando di arte concettuale che si fruisce nella sua comprensione. La musica arriva in maniera diversa, e questa non arriva. Può essere affascinante e misteriosa a pelle, e infatti viene usata per l'horror e il thriller, le persone comuni quando la sentono dicono, sembra adatta per un film dell'orrore. Detto chiaramente e senza voler offendere, tanto più che vi ammiro sinceramente: ma perché una persona dovrebbe ascoltare questa musica che sembra un esperimento scientifico? Che oltretutto manco si può ricordare, canticchiare eccetera? Per carità è straordinaria, ha portato dei suoni incredibili e tutto, ma non può competere con la capacità che hanno la classica e la pop o il jazz di raccontare l'umanità, di parlare, di smuovere, divertire, emozionare in maniera immediata. Poi le persone colte sviluppano anche il bisogno di stare al passo con i tempi, ma voglio vedere chi a casa da solo si ascolta Riley o Stoc... DFW non so se sia d'avanguardia, ma la cosa che più lo spaventava era essere autoreferenziale. Ed è riuscito a non esserlo. Comunque non sono per niente convinto di ciò che dico, ma ci tengo lo stesso a dirlo, poi continuo a rifletterci.
RispondiEliminaCiao 078556, benvenuto nel blog, e grazie per i complimenti. Grazie anche per il tuo commento: il tuo punto di vista è molto interessante e arricchisce la nostra discussione. Sono d'accordo su diverse cose, su altre invece no. Il fatto di funzionare su più livelli è qualcosa di cui molta musica contemporanea si serve, da Sinfonia di Berio a un qualsiasi brano di Elio e le Storie Tese, da Drowninggirl di Romitelli a buona parte della musica di Lanza. Non è però, a mio modo di vedere, una conditio sine qua non: esiste ottima musica che lavora su uno specifico piano di scrittura (poi, per carità, ovviamente c'è ambiguita nel senso...); penso ad esempio, avendo avuto la fortuna di sentirlo tutto recentemente dal vivo, al bellissimo ciclo "Iconica" del "nostro" Marco Momi. E ultimamente mi sto ricredendo: non sono nemmeno così sicuro che questa musica sia "più difficile" da recepire perché non pensata su più livelli di lettura. Davvero non so.
RispondiEliminaTento invece di riprendere il filo delle tue due domande: "perché una persona dovrebbe ascoltare questa musica che sembra un esperimento scientifico?". Non dovrebbe (se non per gusto scientifico, appunto). L'auspicio, secondo me, è di essersi lasciati alle spalle buona parte delle avanguardie, e la speranza di scrivere musica e non di convalidare risultati di ”esperimenti scientifici". Ti do atto: se un brano mi suona come un "esperimento scientifico”, anche per me c'è un grande problema. Ma per la "buona" musica contemporanea non è così (e ci sono un po' di brani che potrei citare, diversi li ho già citati).
Mi dirai: perché allora capita spesso di andare a un concerto e uscire deluso, allora? Perché di "buona" musica contemporanea non ce n'è poi molta, secondo me. Nulla di grave, anzi: in tutte le epoche è stato probabilmente così; la differenza sostanziale rispetto a secoli fa è che, usando esattamente le tue parole, la "cattiva" musica contemporanea "manco si può canticchiare", quindi diventa una noia mortale (a meno di non avere gli strumenti di lettura precisissimi per decifrarla – e in non pochi casi in realtà è semplicemente noiosa anche con quelli). [Boutade: in taluni casi (ma non sicuramente in quelli che ho citato) avere più livelli di lettura può essere un escamotage per evitare di porsi un problema? O forse no...]
Grazie a te. Parlando di livelli, dato che non saprei riconoscere quelli della musica contemporanea ( penso solo che in Sinfonia il III movimento ha un motivetto che travolge, e io non so com'è fatta, non l'ho studiata ), mi riferivo chessò ai Simpson, che sono fatti in modo che anche il più ignorante sulla Terra se li può godere e però sono straordinari lo stesso. Allora Sinfonia o Drowning girl non sembrano esperimenti scientifici, Drowning girl utilizza un canto mi pare, che segue una linea ( correggetemi senza pietà, che vado a orecchio e manco tanto buono ). Ha un che di logico, di sensato, che esula dal discorso dell'autore, perché è un testo recepibile, fatto come sono fatti tutti i testi della cultura dell'autore. Poi sto generalizzando di brutto. Per arrivare alla domanda "perché ascoltare?" che è poi "perché e per chi scrivere?". Se il codice con cui ognuno scrive è comprensibile solo a chi lo ha scritto o a chi ha studiato per comprenderlo beh, la risposta è scontata.
RispondiEliminaCaro 078556,
RispondiEliminaMi permetto di scriverti qualcosa, "da esterno".
Volevo dirti che per me, la risposta non è affatto scontata.
Perché quando si formula qualcosa di nuovo, viene il momento in cui viene detto qualcosa che sulle prime pare non capirsi.
L'artista può essere il primo a stupirsene.
Credo che noi dobbiamo sempre dare alla Musica la possibilità di seguire diversi cammini in uno stesso tempo, e di esprimersi, se necessario, in forme non immediatamente comprensibili.
Ciò non giustifica ovviamente chi l'incomprensibilità la cerca.
Anche: associare automaticamente "modernità" con facilità e disimpegno, significa da parte degli artisti tirare i remi in barca. E' questa un'opinione mia personalissima.
Io credo che la scrittura debba essere uno strumento per arrivare a "qualcosa", dunque certamente non fine a se stessa, ma il troppo preoccuparsi dei codici preesistenti in noi e in chi ci ascolta può essere sterilizzante.
(Tremo al solo pensiero di Kafka o Proust che si mettessero a scrivere preoccupandosi di essere letti.)
Citi gli elementi "comprensibili" di Romitelli e di Berio: sì, ma non bisogna farsi trarre in inganno da ciò che sembra noto in un ambiente dove invece avviene qualcosa di diverso.
Ti aggiungo anche questo, e ti prego di non vederci nemmeno un'ombra di condiscendenza: se non conosci questi pezzi, cercane le partiture, studiale ! Ne vale la pena.
Tutti non hanno studiato, prima di avere studiato – ma bisogna stare attenti a non farsene una bandiera.
Perché non basta, purtroppo, per conferirci una patente di innocenza.
Mi sembra che uno dei gravi problemi della Musica, almeno in Italia ma non solo, sia proprio l'idea che per occuparsene (recensirla, organizzarla, etc.) sia di cattivo gusto l'averla studiata troppo.
Sono totalmente d'accordo con Daniele, ci lasciamo dietro buona parte delle avanguardie e riprendiamo a scrivere Musica: e della stagione passata il tempo terrà ciò che vorrà, come sempre ha fatto.
Ricordandosi però certe cose: che è importante dove mettiamo il paletto del "left behind" (e liberarsi di Schönberg personalmente mi sembra un pochino esagerato. Sai, conosco un ragazzino di quindici anni che una domenica pomeriggio, quando ascoltò alla radio un concerto berlinese di Maurizio Pollini nel quale dopo una prima parte tutta chopiniana si inanellavano Schönberg Berg e Webern, si sciolse in lacrime, e si chiese come aveva potuto vivere fino ad allora, senza conoscerli_vedi, anche questo è possibile); e che forse la miglior cosa sarebbe non mettere proprio alcun paletto: cioè, preoccuparsi di ciò che ci attende avanti a noi piuttosto che di ciò che ci lasciamo dietro.
Mi riunisco alla discussione che é continuata per lidi nuovi. Caro 078556, dici bene che i codici non si conoscono, ma chi lo sa fino a quando non si fa? Il tuo discorso lo si potrebbe alargare alle forme espressive musicali non europee, che seguento il tuo discorso dovrebbero essere incomprensibili. Conosci il Pasi But But della popolazione Bunun di Taiwan? é scioccante e fa anche riflettere sui codici, che sono fatti per essere traditi. E anche immaginare che quello che l'orecchio di un compositore sente deve essere ascoltato, come la poesia di un poeta; senza toccare cose come il linguaggio o la naturalezza di certe espressioni, che per me non esiste. Per me una delle esperienze musicali più forti, a undici anni, é stato un professore delle medie che ci ha fatto ascoltare "Un sopravvissuto di Varsavia" di Schoenberg. Ce l'ho ancora nelle orecchie.
RispondiEliminaCiao a tutti, sono uno studente di composizione e da un po’ di tempo leggo i post di questo blog che mi ha spesso spinto a riflettere su temi che ritengo particolarmente importanti. Innanzitutto complimenti e grazie per aver creato questo spazio di confronto perché credo sia sempre più importante avere occasioni di discussione collettiva. Siccome gli argomenti qui trattati mi toccano da vicino forse più di altri e visto che, abitando vicino a Torino, ho seguito come gli altri anni tutta la rassegna di RaiNuovaMusica, mi permetto di intervenire nonostante la minore esperienza.
RispondiEliminaRaiNuovaMusica. Mi spiace trovarmi in disaccordo con Andrea sulla qualità della programmazione ma, a mio avviso, sembrava gestita con la solita ottica da supermercato, il che vuol dire “un po’ di tutto” senza fare troppe differenze ed evitando il più possibile di dare una prospettiva, secondo me sempre necessaria, alle cose. Ottica come sempre un po’ preoccupante visto che presentava ad un pubblico per lo più di non specialisti (e di questo son ben contento!) pochi lavori di altissimo profilo accanto ad altri assai penosi. A parte la serata dedicata a Berio e lo splendido Audiodrome di Romitelli, se si eccettuano in qualche misura le opere di Cattaneo e Illés, difficilmente si troverebbero lavori degni di nota. Tolti i due o tre pezzi più impresentabili (in cui, come si suole dire, non c’era neanche il mestiere), nell’accozzaglia di neotonalismi di pessimo gusto che si sono sentiti nel secondo concerto, nei passi da colonna sonora americana sparsi un po’ ovunque (persino, mi rincresce dirlo, nei due lavori di un compositore che stimo moltissimo come Ivan Fedele) e nella banale ritmica di poco prezzo arricchita qui e là da effettacci abbastanza grevi, il panorama che si delineava, ben lontano dal rappresentare anche solo in minima parte il mondo della vivacissima musica contemporanea di oggi (non sono poi così d’accordo sul fatto che non ci siano autentici capolavori nel panorama globale), era quello di una produzione in serie, ammiccante e senza pretese, dove il concetto di “suonare bene” si traduceva semplicemente in un vuoto comunicativo davvero preoccupante. O almeno così mi sembra. Non credo infatti sia stato un caso che il brano di Romitelli abbia riscontrato ben più successo della paccottiglia del venerdì precedente nonostante richiedesse ben più attenzione durante l’ascolto. Ed è qui che mi ricollego alle osservazioni di Andrea sui tre lavori di Berio e sulla musica di oggi in generale.
Su Sinfonia. Partendo dal presupposto che sia da considerarsi un capolavoro indiscutibile, credo sia anche uno dei casi più evidenti di travisamento del pensiero dell’autore che, ai tempi della composizione, non poteva neanche immaginare cosa avrebbero poi scritto in seguito sul postmoderno Lyotard e Jameson. Non penso che per dialogare col proprio tempo sia necessario intavolare un dialogo (magari esibito) con quella pluralità dei linguaggi che spesso è stata indicata come la caratteristica fondamentale del postmoderno (ma sarà poi vero? E soprattutto: quanto dura?) per uscire dall’empasse della difficoltà di dire qualcosa nel 2013. Tra l’altro concordo pienamente con Ciceri quando dice che il postmoderno è una “categoria molto dubbia”: fra gli altri anche Tutino e Ferrero parlavano in questi termini negli anni ’80 e ne vediamo purtroppo i risultati. Innanzitutto i linguaggi in genere sono soggetti a deperimento e ciò che per noi è citazione o riferimento ad un determinato sound con ogni probabilità non lo sarà più in maniera esplicita nel giro di poche generazioni perché il linguaggio allusivo necessita di una base culturale comune forte fra autore e fruitore, cosa che per Berio è possibile perché si poggia su un’eredità culturale forte e condivisa (chi è però che riconosce le citazioni di Boulez nel terzo movimento?).
Correggetemi poi se sbaglio, ma raramente, e forse con le sole eccezioni di Berio e Romitelli, questa strada è stata in qualche modo produttiva, ma mi viene il sospetto che forse lo è stata soprattutto perché alla base c’era altro a garantire la validità dell’opera. Più spesso infatti è stata solo caricaturale o patetica, e penso ora alle decine e decine di chitarre elettriche usate a sproposito per scimmiottare attraverso la brutta copia di Romitelli un rock mai davvero praticato nella vita, alle centinaia di lavori per voce/i con testi pescati da ogni dove senza il minimo criterio o alle insopportabili citazioni/rifacimenti corghiani così in voga qualche decennio fa. Siamo sicuri che tutto questo definisca o abbia definito cos’è la contemporaneità? Non so, ma non mi piace l’idea che siano i prodotti più effimeri della società a descrivere cosa sia un’entità complessa come l’uomo. Forse, più semplicemente, visto che le risorse tecnico-compositive di cui la nostra generazione dispone sono particolarmente efficaci, non credo sia un problema di linguaggio ma di necessità interna.
RispondiEliminaEindrücke suona insopportabile e noioso perché il suo barcamenarsi fra ridondanze totalmente ingiustificate e ingiustificabili all’ascolto suona vuoto proprio come i freddi meccanismi che stanno alla base della sua scrittura e purtroppo anche al centro del suo interesse. Mi vengono in mente, quando sento lavori del genere, pagine ben più “acide”, lunghe e ridondanti, ad esempio di Sciarrino, Grisey o Filidei, in cui mi sento a tal punto trascinato dall’ascolto da non fare minimamente caso a ‘come’ il pezzo si svolga: il suo accadere quasi mi ipnotizza e dà senso all’insieme perché il senso è estraneo all’elemento tecnico eppure immanente. Credo che se l’avanguardia, soprattutto quella più scomoda che troppo spesso chi ha la mia età (ho 25 anni) tende a rifiutare solo per la mancanza di voglia di dedicarsi ad un ascolto serio e continuato (e così rispondo a 078556: ascolto e riascolto musica contemporanea ogni giorno accanto a quella dei secoli passati: non riuscirei emotivamente a farne a meno e tutto fa tranne che annoiarmi), ci abbia insegnato e ci insegni quanto anche la più rigida struttura, se impiegata con l’intento di comunicare qualcosa di umano e non di dimostrare teoremi, possa tradursi in musica viva ed emozionante nel senso più profondo del termine. Mi emozionano il lirismo del Moses und Aron, delle Variazioni di Webern, dei Cori di Didone e di Una ola di fuerza y luz, la potenza di Gruppen, dei Klavierstucken e de Le marteau sans maître, la tensione dinamica di English Country Tunes, la monumentale bellezza di Coro e Un’immagine di Arpocrate come i freddi colori di Inverno-In ver. Mi emozionano esattamente come lavori come Wanderer, Scena, Winter fragment, Schreiben e le più visionarie opere di Billone, Filidei, Bedrossien (non parliamo sempre male del saturismo: è un’etichetta impropria che mal definisce cose fra loro assai diverse) Lanza e di moltissimi altri compositori fino ai miei coetanei. Ed è per questo che non credo che viviamo “nel mondo della ‘musica che finalmente suona bene’”, a meno di non considerare sincera espressione del nostro tempo le tonnellate di pagine che hanno impunemente scopiazzato dal mondo sonoro di Requies fino a renderlo stucchevole. Perché se ascoltando mi trovassi sempre a pensare che “suona bene”, significherebbe che non c’è altro che attiri la mia attenzione, e per ‘altro’ intendo il livello emozionale-contenutistico, non tecnico. Mi sento abbastanza fortunato riuscendo invece a sentire abbastanza spesso nuovi lavori che mai mi sognerei di definire “che suonano bene” o che “funzionano”. Potrei infatti solo affermare che “hanno qualcosa da dire” indipendentemente dai mezzi che usano.
Quello che infatti mi irrita profondamente nella ‘musica che finalmente suona bene’ che purtroppo esiste (e si badi al fatto che anche Eindrücke per una certa estetica “suona bene”) è la sua tendenza, tipica di ogni tempo ed ogni età, ad essere tale solo per ricercare – consciamente o meno è lo stesso – il plauso facile attraverso il ricorso ad una becera ideologia di mercato secondo la quale ciò che si produce è innanzitutto merce per un fruitore e non un messaggio umano. Se la densa scrittura del Lux Aeterna ha colpito Kubrick è perché ha una potenza espressiva e una voglia di comunicare che non possono lasciare indifferenti.
RispondiEliminaSe ci si trova a percepire la propria musica come qualcosa che “suona bene” credo sia necessario innanzitutto domandarsi perché è questo ciò che più colpisce. Allora forse non sarà il “come” da cambiare ma il “cosa”.
Scusate il profluvio di parole… non ho il dono della sintesi
Caro M87. Sono d'accordo. Scrivendo quello di cui ci si rende conto é che é più importante il cosa che il come.
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