Torno per l'ennesima volta sulla mia ossessione: quali sono le cause del nostro isolamento? Qualche tempo fa, in risposta all'ultimo post di Marco, avevo lanciato una domanda: ci sono state, nella produzione dei compositori che ci hanno preceduti, anche ragioni puramente musicali che hanno fatto scappare il pubblico che invece Berio, Maderna, Donatoni avevano? Ho ritrovato di recente una citazione di Berio che forse non avevo mai veramente capito, e dalla quale è scaturita una riflessione, no, piuttosto un insieme di sensazioni disorganiche che proverò ora a condensare in qualcosa che assomigli a un pensiero: generalizzando, semplificando, ma - spero - riuscendo a scovare qualche indizio che ci aiuti a capirci qualcosa.
Esiste un dato che mi colpisce come ascoltatore e appassionato di musica, prima ancora che come musicista, e che suscita in me un disagio sempre crescente: i compositori (non tutti, ovviamente, ma i più) a un certo punto hanno scelto di non occuparsi della complessità del mondo, per concentrarsi sulla complessità del linguaggio musicale in sé. "Non è più tempo di tagliatori di diamanti" diceva Berio, e così dicendo sosteneva la primazia del confronto con ciò che ci circonda e con ciò che siamo sulla purezza della musica. "Non è più tempo" rispetto a che cosa, e perché? La società, la politica, certo. La frase di Berio è dell''81, tempi difficili (ma quali tempi sono facili?), morte o agonizzanti le utopie che avevano portato Nono nelle fabbriche e migliaia di fricchettoni a Woodstock, la Thatcher e Reagan mostrano la ferocia del potere nel cuore del civile occidente: e allora o l'arte si sporca, o rischia di non poter più parlare che di sé stessa. Tutto vero, anche se sono cambiati più i sentimenti che i nudi fatti, e si sapeva della guerra del Vietnam e dei carri armati a Praga e degli Hell's Angels ad Altamont anche negli anni del potere ai fiori. Io però nella frase di Berio leggo anche l'urgenza di non perdere, o forse di ritrovare, tutto un universo di senso che nel laboratorio del gioielliere rischia di smarrirsi: la complessità dell'esistenza umana, nelle sue contraddizioni, nelle sue passioni, nella sua follia. E questo, mi sento di dire, è ancora più importante, non foss'altro perché racchiude tutto il resto: compreso il desiderio che abbiamo in molti di smettere di parlare dell'uomo per occuparci di cose più grandi e più interessanti - ma qui si spalancherebbe una porta che oggi voglio lasciare chiusa.
Mi interessa allora vedere come tanti compositori degli anni '80 - proprio quando Berio parlava - abbiano deciso di essere, ancora una volta, "tagliatori di diamanti", trovando le ragioni della loro poetica in un controllo tecnico impareggiabile del materiale musicale, ritenuto in ultima analisi garanzia di qualità. Mi interessa e in qualche modo non lo capisco, perché è stato un movimento ampio, generazionale, cosciente, che si è fatto forte di uno splendido insieme di conquiste intellettuali, dalla fisica del suono alla psicoacustica alla filosofia del linguaggio, e poi la musical set theory in tutte le sue declinazioni, il tutto sostenuto dallo sviluppo vorticoso dell'informatica e coltivato con mezzi grandiosi in strutture come l'IRCAM: ma che, a vederlo oggi, mi sembra avere ostinatamente confuso segno e senso, lavorando ossessivamente sul primo e perdendo di vista il secondo. La parola che mi viene in mente, impietosa, è manierismo. E questo non vuol dire che io ne deplori incondizionatamente gli esiti e i protagonisti. Tutt'altro: sono state create gemme meravigliose, ci sono stati e ci sono ancora grandi compositori e comunque mi affascina questo atteggiamento che può sfiorare una specie di rigoroso ascetismo - perché chi taglia diamanti poi non li copre di vernice. La figura esemplare di questo momento e di questa severità è per me Marco Stroppa che, forse più di ogni altro, coniuga in maniera cristallina l'attività artistica a quella di ricerca e produzione scientifica, nella ricerca dichiarata della chiave che lo affranchi da ciò che è cosmetico, contingente, effimero.
Ed ecco un altro terreno su cui ergere bandiere. Per esempio, Ivan Fedele dichiara di voler essere "leggermente inattuale": aggiungendo poi che questa leggera inattualità lo protegge dal seguire le mode, e in definitiva dal cadere nella trappola dell'effimero. Ma non potrebbe invece essere successo che altri, che effimeri si sono maliziosamente dichiarati, che hanno continuato a occuparsi del mondo, siano poi riusciti a costruire una nuova Weltanschauung nella quale il mondo a sua volta si riconosce?
C'è un'altra considerazione che mi sembra importante: un'intera generazione, e forse due, ha saltato a piè pari la fase irrinunciabile in cui i figli uccidono i padri. Si è posta in continuità con una tradizione cercando semmai di riannodare fili che sembravano spezzati, recuperando parole e concetti come melodia, funzioni armoniche e quant'altro - attenzione: "recuperando", non "reinventando". E paradossalmente l'unico rifiuto che viene opposto ai predecessori è rivolto alla radicalità del linguaggio, al desiderio di sovvertirne le regole, di essere coraggiosamente e incoscientemente nuovi.
Noi viviamo nella scia di tutto questo, se non altro perché i compositori di cui parlavo sono stati i nostri insegnanti e, nei momenti fondamentali della nostra formazione, abbiamo visto attraverso i loro occhi. Viviamo nella scia di tutto questo e non vogliamo e non possiamo rinunciare al nostro essere poetae docti, artigiani eruditi e raffinatissimi: e sì, certo, rivendichiamo e difendiamo ciò che siamo, e una musica astratta che non si balla e che non si fischietta eccetera eccetera. Però poi il pubblico diserta i nostri concerti: lo fa perché questa musica è troppo difficile? L'ho sentito dire da molti, ma pensare così sottintende inevitabilmente che la gente è stupida e fugge davanti alla complessità. Io non ci credo: le persone intelligenti esistono eccome, anche tra chi non si occupa per lavoro di musica contemporanea, e ho la fortuna di conoscerne molte. Eppure neanche loro vengono ai nostri concerti: di nuovo, perché? È semplice: perché non li trovano interessanti. Perché non è tempo di tagliatori di diamanti e la gente lo sa, eppure diamanti tagliati è ciò che troppo spesso le stagioni di musica contemporanea si ostinano a offrire, che i direttori artistici continuano a premiare - nel migliore dei casi: altre volte sono solo specchietti e perline colorate. Esiste una sintesi possibile? E sapremo uccidere i nostri padri? O invece il nostro lavoro non ha senso punto e basta?
RispondiEliminaCaro Andrea,
Ti ringrazio per questo tuo interrogarti, che mi colpisce molto, e perdona se queste righe che seguono saranno frettolose, magari puntualizzerò più tardi.
Mi permetto di esprimerti una visuale leggermente diversa: se oggi ai concerti non c'è più il pubblico che c'era ai concerti di Berio e Maderna, in questo (oltre al fatto che, fisicamente, quel pubblico non esiste proprio più) io individuo una parte di responsabilita proprio in Berio e Maderna stessi, diciamo, e non tanto/solo nei loro immediati successori (che han dovuto fare i conti con qualcosa, riguardo cui il loro "tagliar diamanti" è comunque una risposta, riuscita o meno è un altro discorso). Berio presentava la sua musica ad un pubblico che era testimone ancora di una tradizione precedente, che in una certa misura condivideva con lui una "ideologia" (era un momento in cui questa parola non era percepita come una insulto, tutt'altro), e che quindi gli dava la sua fiducia. Che lui si sapeva meritare, certo: ma l'Italia, di fondo, era un paese arretrato, ed essendovi assenti le basi culturali /d'ascolto che c'erano in altri paesi, finita la stagione intellettuale del dopoguerra, l'entusiasmo non è più stato "supportato". Un rapporto di fiducia non "esplode" sempre da un giorno all'altro, soprattutto se solido; e a volte la felicità di una comunicazione può nascondere al presente gli impercettibili segni della sfiducia.
Ma, provoco: e che cosa faceva Berio, se non tagliar diamanti, pure lui?
Su questo, poi, io direi due cose: che non è a causa dell'attività del tagliar diamanti in sé che il pubblico è "scappato", ma perché evidentemente siamo ben lontani dal fatto che tutto ciò che veniva tagliato come diamante fosse tale.
La seconda: io mi sento assai lontano da quest'aspetto in parte "normativo", in parte profetico, di Berio (che certo, lo comprendo, è un segno di un'autorità che non metto in discussione), dal suo dire: questo è il presente che in un certo qual modo è dire: questo è il futuro.
(Che questa attitudine sia un pochino un "mal du pays" me ne viene un po' il dubbio, e ti allego con una strizzata d'occhio questo rimando irrispettosissimo: http://www.youtube.com/watch?v=-ftRh6USBUs ).
Il futuro è ciò che del nostro presente sarà filtrato dalle generazione successive alla nostra; preoccuparsi oggi di quelli che saranno domani i criteri di filtro è a mio avviso vicino alla miseria intellettuale.
Perché il presente è complesso, e il fare arte lo è altrettanto.
In quest'affermazione di Berio che citi, io ci vedo un'eco della risposta che Berio aveva dato nel 1951 (trent'anni prima!) a Fedele d'Amico che gli chiedeva la sua posizione su Ravel: Berio aveva risposto (cito a memoria, chedo scusa) che percepiva Ravel con l'enorme nostalgia per una bellezza che ormai oggi non è più possibile.
Questo mi sembra un atteggiamentomolto vicino a quelle posizioni adorniane che si esprimono perfettamente nella frase "non è più possibile poesia dopo Auschwitz"; che pur comprensibili all'epoca sono esattamente una di quelle cose da cui io credo che noi oggi dobbiamo più vigorosamente prendere le distanze.
E riprendendo la tua frase: e Mozart, in quali tempi viveva? E Josquin? Era forse bello il loro mondo? (Che sia detto per inciso, nel caso di Mozart, non si faceva grossi problemi a farlo morire di fame.)
Io ho una posizione un po' diversa sulla funzione dell'arte di esprimere il proprio tempo, e credo che la sincerità dell'artista nel cercare una scrittura che sia espressione autentica di se stesso abbia in questo un peso preponderante.
Essere cioè fedeli alla ragione (segreta?) per la quale, un tempo, si è iniziato a scrivere.
Un grosso abbraccio,
Stefano
Grazie Stefano, per avermi fatto mettere in discussione col tuo commento, in maniera così saliente, un certo numero di cose che avevo date quasi per assodate.
RispondiEliminaCapisco la tua obiezione sull'aspetto normativo, di chi dice che il futuro, o il presente, "deve essere così". Spesso più che normativo è ottativo, però vedo il tuo punto. Resta il fatto che questa presa di posizione (se fatta a ragion veduta, con intelligenza) può essere interessante, nel senso che può essere un punto di vista forte rispetto al quale tutti quanti possiamo relazionarci in modo saliente.
Colgo e rilancio la tua provocazione: il paradosso è che, nel video che citi, Baricco (dimentichiamoci per un attimo l'atteggiamento autoerotico...) tutto sommato dice delle cose interessanti, condivisibili o meno, rispetto alle quali comunque è possibile avviare una discussione, prendere posizione. Questo mi sembra di per sé un merito dell'aspetto "normativo" di cui parli.
Però sono affascinatissimo dalla tua visione del mondo, in cui queste dichiarazioni diventano quasi un'aggressione allo scorrere del tempo...
Caro Daniele, sono io che ti ringrazio per la tua attenta risposta.
EliminaCiò che facilmente mi disturba in questi atteggiamenti "normativi" è la percezione in essi di un presente, di un futuro, di una modernità_univoci, come già fissati: che il "profeta" individua, e a cui i non profeti si accodano.
Perché a me appare evidente che non vi è un solo presente, nè un solo futuro.
Paradossalmente, anch'io sarei disposto a trovare ragionevole il punto di vista di Baricco, e facendo silenzio sui "minuetti per intellettuali raffinati", la sua ultima frase ("noi accediamo al futuro quando ci rendiamo disponibili a un cambio della grammatica del nostro pensiero") è qualcosa su cui sarebbe difficile non trovarsi entusiasticamente d'accordo.
A me viene però spontaneo porre immediatamente in relazione le parole con le opere: e in questo caso la relazione mi sembra stupefacente.
Ecco, potrei formulare altrimenti: Berio non aveva certo bisogno di fare colui che prevede il futuro.
Ma hai ragione quando dici che le persone che si espongono con coraggio e chiarezza rappresentano di per sè un valore, di stimolo e di dialogo.
Ed è anche vero che chi si accoda, sceglie di farlo...
Che bello...grazie Andrea, Daniele e Stefano. Trovo innegabile il fatto di essermi più volte e confusamente posto il problema sollevato da Andrea e, in definitiva, la logica con la quale siamo cresciuti in quanto "consumatori di musica", prima che compositori, forse induce all'approccio normativo. Purtroppo l'azione con la quale la società musicale degli ultimi decenni ha suggerito diamanti o riconosciuto selvaggi di genio è molto prossima al gesto del taglio, azione che ha creato affezione, è diventata norma attuale a dispetto della prova d'esistenza del contemporaneo. Temo che alla fine rimangano i tagliatori in sé più che gli autentici diamanti o zirconi che siano: il residuo del modo con cui valutiamo la desiderabilità di ciò che facciamo, o ciò che è stato fatto, risiede sempre meno in quello che Stefano rivendica giustamente come "opere" (valore dell'oggetto), e sempre più nella forza dell'atto selettivo. Se è vero che a oggi, in qualche caso, il persistere di posture compositive degli '80 suona patinato e al limite del manierismo, io fatico a non riconoscerne originali pulsioni anti-tagliatori di diamanti. Ciò che oggi è materiale plastico (spesso palese nella categoria alla quale siamo confinati di allievi degli '80) nasce in realtà come tentativo di definizione di grammatiche più "plastiche", se vogliamo (per i tempi) più dirette, io vi vedo tracce di una liuteria dell'arma molto prossime (in linea di categoria) a quelle che troviamo poi nel nostro amato Romitelli. Concordo dunque con Stefano, se giochiamo a riconoscere tagliatori, forse dobbiamo per forza guardare in primis a Berio. Mi chiedo inoltre se questa voglia di leggere il futuro abbia ancora senso e se_ in termini di principio_ le risposte di Berio o Romitelli al problema siano poi così diverse. Penso a Folk Songs e ai riferimenti di genere (rock etc..) romitelliani o alle innumerevoli trascrizioni di Sciarrino dei vari Gesualdo & Co. (che oggi tengono quanto i Pan Sonic..); io non vedo furbizia, tutt'altro, ma trovo innegabile una somiglianza di approccio, un soffuso compromesso talvolta mal vissuto e acido che gioca sullo spostamento linguistico di preziosi equivalenti, più che sulla chimica del carbonio.
RispondiEliminaTemo che la fase dei selvaggi creativi (orgogliosamente scoordinati nel ballo) sia abbastanza morta e che solo nella mostruosamente lenta filiera contemporanea conosca oggi un qualche bagliore riflesso, penso a quelli che ficcano i video ovunque (molto spesso non sapendoli fare) perché se no un quartetto non ha senso... se lo spostamento di genere non è più così attuale sposto proprio i contesti, tanto sono un creativo selvaggio e anche se non ho la più pallida idea di come si tagliano i diamanti mi ritrovo con un bisturi in mano, magari taglio un po' di carne viva e vediamo cosa accade. Intendiamoci, rimescolare le carte è una delle attività che preferisco, mi inquietano però atteggiamenti la cui desiderabilità si poggia sul disorientamento, sul respiro corto dello stress da predizione; sindrome forse diffusa tra chi scommette nell'univocità del futuro? Effetti di una concezione normativa del futuro?
Caro Marco,
RispondiEliminaCredo anch'io che le risposte di Romitelli e di Berio non vadano in direzioni opposte.
(Peraltro, un bel modo di pensare il futuro, è cercare di porsi in quell'angolo/visuale per il quale le cose che si direbbero opposte nel presente, al limite non lo siano più.)
Ed io ho sempre percepito i conglobamenti di genere in Romitelli come un fenomeno eminentemente postmoderno, con una particolare declinazione, cioè di atti d'intelligenza. Del genere: "E io parto da qui. (E allora?)", giacché credo che siamo d'accordo che la potenza della musica di Romitelli sia proprio nella furia di annichilamento dell'oggeto di partenza, il cui senso letterale diviene secondario. Pur essendoci, certo.
Su Berio che predice il futuro – nella sua musica, però – mi permetto di indicare come esempio quasi casuale, un passaggio ("Sinfonia", I movimento, da J in poi), nel quale io vedo contenute tutte le premesse tecniche di un gran numero di pezzi di quella "musica troppo bella" dei vent'anni successivi, di cui parla Andrea. In ogni caso, è un segno di grandezza.
Leggendo la tua frase, che alla fine rimangono i tagliatori più che i diamanti, ho pensato che non possiamo parlare di pubblico senza parlare di potere.
E una delle principali differenze è che Berio, Nono, Boulez, si erano battuti e si muovevano per un dialogo con chi produceva la Nuova Musica: che spesso aveva una larga comprensione. Sono situazioni d'eccezione, credo (pensiamo al rapporto Nono-Cacciari, tanto per fare un esempio difficile).
Oggi però ho spesso l'impressione che la situazione sia spesso quella dell'artista che deve far attenzione perché se il re dice "nous ne sommes pas amusés" sono guai. Solo che il re oggi è spesso nelle condizioni di non sapere se si è divertito o no, per saperlo guarda il pubblico della serata, e il serpente si morde la coda.
signori,
RispondiEliminaleggendo i vostri testi appare un dato sul quale mi permetto di indirizzare la vostra attenzione: che siano cioè stati posti su di una linea contigua fattori d'ordine tecnico ("il taglio dei diamanti") con fattori d'ordine sociale ("i fruitori dei diamanti"). almeno ciò appare dalle domande che si pone agostini: "esiste una sintesi possibile? e sapremo uccidere i nostri padri? o invece il nostro lavoro non ha senso punto e basta?" - domande che presuppongo un accostamento (magari solo in apparenza) contraddittorio: "sintesi possibile" e "uccidere i padri". da un lato la "synthesis" (composizione, combinazione, unione), dall'altro l' "occidere" (abbattere a colpi). siamo sicuri che questa filiazione sia davvero esistente? sono davvero "padri" da uccidere? non mi risulta del tutto chiaro in che modo venga inteso il "senso" di un lavoro come quello compositivo. l'inattualità preserverebbe da cosa? quali mode si impongono, quali prassi? l'intervento di bulfon - che mi perdonerà se forse risulti da me frainteso - nel citare la troppo nota frase adorniana, dalla quale dice si debba "vigorosamente prendere le distanze", in riferimento all'opinione di berio su ravel, a che cosa vuole mirare: ad una riabilitazione di categorie, forse? sul fatto che i "tagliatori di diamanti" fossero sempre tali, avanzerei qualche riserva, almeno da comprovare di partitura in partitura. infine, dopo l'intervento di momi, che ha posto accenti su ulteriori e non semplici questioni da dirimersi, sono rimasto stupito dalla frase di bulfon: "e una delle principali differenze è che berio, nono, boulez, si erano battuti e si muovevano per un dialogo con chi produceva la nuova musica: che spesso aveva una larga comprensione." non vorrei sembrare eccessivamente pessimista, ma siamo in grado di quantificare oggettivamente quello "spesso" e quella "larga comprensione"? mi complimento vivamente con voi per l'accuratezza di questo spazio in rete, trovato per caso.
perdonate, non mi sono firmato
RispondiEliminadario agazzi
Vorrei aprire una parentesi, un po' a sproposito, ancora sul video di Baricco.
RispondiEliminaI selvaggi non esistono. Questa storia dei selvaggi di genio e degli intellettuali che minuettano mi irrita terribilmente perché la trovo borghese, salottiera, qualunquista. Non mi viene in mente un solo esempio - e ho cercato bene - di un genio il cui intelletto non minuetti; certo, a volte i passi della danza, raffinatissimi, rispondono a codici che potremmo non riconoscere: basterà questo a farci pensare che non ci sia conoscenza, non ci sia artigianato, non ci sia pensiero?
Però senza dubbio è una storia comoda da raccontarci: da una parte esime noi, che sappiamo tagliare i diamanti in punta di coltello, dal sovvertire le grammatiche del pensiero (sì, questa cosa l'ha detta bene, e con ciò?), tanto non siamo selvaggi. D'altra parte crea un piedistallo per chi abbia voglia di mettersi con la pancia di fuori e quattro penne di gallina in testa a dimenarsi goffamente pronunciando fonemi senza senso: perché sicuramente qualche critico annoiato griderà al selvaggio di genio; e sicuramente qualche stupido applaudirà un'esibizione che finalmente non sfida la sua poca intelligenza; e magari poi il re, sempre indeciso, sarà contento perché il pubblico è contento: e anche lui applaudirà…
… e poi, Stefano, l'atteggiamento profetico e normativo che ti infastidisce a me un po' piace, e ogni tanto mi diverto pure a praticarlo. È una normazione dolce, in fondo, che di per sé non smuove i carabinieri né la santa inquisizione; è, forse, un tentativo come tanti di leggere in maniera ordinata il caos che ci circonda; un'ipotesi di lavoro, un genere letterario. Il problema è quando qualcuno comincia a costruire chiese e tribunali…
RispondiEliminasacrosante le parole di andrea.
RispondiEliminain risposta a baricco, permettetemi di citare- in questa sede- da SINFONIA di pizzuto:
"or al barlume lacustre da persiana in squame rivivere, prodigiosa calata, spente domesticità, fare greppo il mal destro bimbo sotto le irsute sembianze, insipida l'ostinante contesa, infidi i vicini poi che amici, e zittire, scalzo aggirarsi, sprovvisti, gocce d'olio, minimo burro erano caviale, smorzava un fil tal lucignolo, smunta, scarno, l'infanzia stenta, allarmi muggiti, scuro ogni dove. insolito campanello. e il bando liberale. obbedirvi."
vostro, dario agazzi