A un certo momento, scegliere di non scrivere più una nota. Deporre la matita. Chiudere i fogli pentagrammati nel cassetto. Interrompere il canale che congiunge l'orecchio interno e la mano competente. Riconoscere di non avere più nulla da dire, assumerne la responsabilità e le conseguenze. Solo allora è lecito dire che la propria musica è morta.
A un certo momento, scegliere di scrivere ancora. Riprendere il lapis fra le dita. Portare i fogli dal cassetto al tavolo. Ristabilire il contatto fra le orecchie e il lavoro. Rispondere al bisogno rinato, assumere tutto ciò che comporta. Allora, la propria musica rinasce.
Tale momento è puntuale. Arriva solo una volta nella vita.
Tale momento è molteplice. Lo si vive ogni giorno.
Ognuno lo sente arrivare con un ritmo diverso. Non sempre ne conosciamo lucidamente le motivazioni. Spesso ci diamo delle spiegazioni, a volte azzeccate, a volte consolatorie. Però.
Voi, perché scrivete?
Voi, perché non scrivete più?
"Ho scelto di deporre le armi, perché sono stanco della battaglia. Non voglio vincere, non voglio perdere. Non voglio fare nulla e basta. Mi siedo. Non aspetto nulla."
"Ho scelto di riprendere la carabina, perché voglio combattere. Vincerò, perderò, non mi importa. Voglio giocare la mia parte, voglio essere attivo."
Sono due posizioni lecite.
Proseguo, e posso riportare un aneddoto:
Una volta a lezione Fedele ci chiese che cosa fosse una musica bella. Qualcuno disse che era una musica vera. Qualcuno disse che era una musica necessaria. Qualcuno disse che non sapeva cosa rispondere ma ci avrebbe pensato.
Qualcuno lo traduceva così:
io, perché scrivo?, io, perché non scrivo?
Vado avanti, e posso anche riportare un "sentito dire" mediatizzato e volgarizzato.
Diciamo che viviamo nel postmoderno. Quindi tutto è stato detto, è la fine della storia, siamo all'apocalisse. Ripetiamo le stesse cose. Non c'è più niente da inventare. Dunque logicamente smetto di scrivere - anche se quel logicamente non viene molto spesso assunto ed ingoiato come andrebbe logicamente fatto.
Diciamo che viviamo nel postmoderno. Quindi c'è tantissimo a disposizione, siamo ricettivi a moltissimi stimoli e li accogliamo. Li elaboriamo con l'orecchio e con la mano. Forse tentiamo di inventare modi diversi di ascoltare - e Lachenmann e Luc Ferrari insegnano - o ci piacerebbe farlo. Sognare di dire come ascoltiamo il mondo. Dunque scriviamo, ed è bellissimo anche quando molto spesso non ci riusciamo.
E poi posso riproporre una tematica che ci sta molto a cuore:
Diciamo che la cultura italiana emargina i compositori e i compositori si emarginano dalla cultura italiana. I compositori si intristiscono e smettono di scrivere, nessuno li ascolta.
Diciamo che i compositori fabbricano la cultura nonostante le difficoltà, perché i compositori vivono, reagiscono, si arrabbiano, si mettono in gioco, si fanno uno spazio e scrivono - oltre ad esprimere pubblicamente le proprie istanze.
"Ma voi, perché non scrivete più?"
"Ma voi, perché scrivete ancora?"
Alcuni compositori hanno proposto una riflessione al proposito, e perdonate la pedanteria se infine riporto aneddoticamente ciò che segue:
Un giorno mi confrontavo con Paolo Aralla. Mi diceva che la scrittura è un'esigenza del tutto personale, un bisogno insopprimibile.
Un giorno - un po' prima - Gustav Mahler diceva che tutto quello che riusciva ad esprimere di sé lo poteva fare solamente con le note, altrimenti avrebbe scritto romanzi.
Un giorno - un po' dopo - Franco Donatoni scriveva Antecedente X e Questo, scombinando le carte in tavola (o prendendo un altro mazzo).
Tutto questo ha per me un valore. Tutto questo è importante. I fogli pentagrammati passano dal cassetto al tavolo, dal tavolo al cassetto, la matita rimane spuntata, la matita viene riappuntita ("e dove ho mai messo la gomma??").... e così gli oggetti materiali che ci permettono di fare la musica li rifiutiamo e li riprendiamo. E' la nostra costante incostanza.
Ma come gli amici sanno, non ho risposte, e non parlo molto. Anche questa volta è lo stesso. Però mi porto dietro la domanda, che consiste in una sola parola seguita dal punto interrogativo.
Come direbbe il clownesco trombonista di Berio: "Why?"
"felicità del movimento, disperazione dell'angustia, follia della perseveranza, senso di miseria di fronte alla calma dell'esterno. tutto ciò sia contemporaneamente che alternativamente, persino nel fango della fine, uno spiraglio di felicità." f.kafka, "aforismi e frammenti", 3° quaderno in ottavo, tr. it. di e.franchetti, rizzoli-bur, 2004
RispondiEliminap.s. il postmoderno è morto e sepolto, qualcuno ancora non lo sa?
http://philosophynow.org/issues/58/The_Death_of_Postmodernism_And_Beyond
saluti, dario agazzi
Ciao dario,
RispondiEliminanon ti sembra che Alan Kirby sia un po' troppo tranchant nello scritto che citi? (Mentre leggevo mi venivano in mente un sacco di controesempi alle sue parole.)
Dopodiché qualcun altro direbbe (se non sbaglio ne avevamo anche discusso anche su questo blog) che il postmoderno è una categoria che non è invece mai esistita... Ma secondo me no: la sua eredità mi sembra rimanga piuttosto viva, in molte forme e incarnazioni.
ciao daniele,
Eliminasì, lo scritto di kirby è tranchant, ma necessario. la giustificazione della "post" storia è ormai obsoleta. io mi permetterei di distinguere in più sezioni la nozione di "postmoderno" (che, comunque, non è mai chiara del tutto, sebbene nata in ambito archiettonico): c'è il decostruttivismo di derrida, imprescindibile; c'è poi un fraintendimento del concetto che ha aperto le strade a tutto il possibile: dal kitsch, al livellamento, sino alla possibilità di giustificare qualsiasi "ritorno". ad ogni modo, l'analisi di kirby è molto puntuale: sarei molto interessato ai controesempi che ti sono sovvenuti leggendolo...saluti, dario agazzi
Il primo che mi viene in mente, riscorrendo l'articolo: Kirby dice che guardando la televisione oggi, non c'è essenzialmente più nulla di postmoderno. Basta prendere le prime due serie TV per ordine di popolarità negli USA (How I Met Your Mother, The Big Bang Theory) e ci si rende conto che l'influsso del postmoderno è enorme (direi più sulla prima che sulla seconda).
EliminaLa stessa cosa a me capita di vederla e sentirla anche in molte produzioni musicali di oggi. Sono d'accordo che la nozione è poco chiara, e ambigua. Sarei anche curioso di sapere di più su che cosa intendi con "fraintendimento". (Tutto sommato il kitsch più che un fraintendimento è una deviazione, no? Ma probabilmente è solo questione di semantica...)
per "fraintendimento" pensavo alla nozione di "ritorno", che non troviamo affatto, ad esempio, in "feu la cendre" di derrida (mi prendo la libertà di citarlo perché per me resta testo capitale anche del mio modesto operare) ma, invece, in molti compositori considerati "padri" del postmoderno. uno di questi, che avevo già citato in un altro commento, è p.castaldi - compositore milanese oggi abbastanza trascurato - che è passato dalla pratica del collage integrale (nulla di originale in sé, ma di interesse rilevante alle volte nel risultato) al "ritorno" degli stili di autori precedenti, imitati fino all'immedesimazione. questo fraintendimento potrebbe condurre fino al kitsch, ed in tal caso si tratterebbe di deviazione, come ben dici.
Elimina***
purtroppo non posseggo nozioni abbastanza valide per opinare sulla questione televisiva, anche perché ammetto di non conoscere le serie da te citate. il problema è capire se quest'influsso rechi giovamento o meno al prodotto così confezionato. il risultato è buono? saluti, dario agazzi
Capisco. Grazie, dario, per i riferimenti. In effetti confesso di conoscere poco anche io Castaldi (mi ricordo con chiarezza credo solo alcuni collages per pianoforte). Andrò a riascoltare un po'...
EliminaSulla faccenda televisiva, in realtà, per me non era nemmeno troppo questione di decidere se il prodotto fosse buono o no (a tratti secondo me lo è, a tratti no), più che altro era emblematico per me il fatto che il prodotto fosse attuale (nel senso "sociale" della parola), quindi sconfessasse un po' la tesi di Kirby.
negli anni di studio milanesi, mi era capitato svariate volte di incontrare p.castaldi. la sua fede cieca e assertiva nella "postmodernità" tout court era quasi imbarazzante. per tornare però un attimo alla questione del post, questo link risponde bene alla domanda (assai antica in verità) di andrea sarto "ma voi perché scrivete ancora"?
Eliminahttp://www.novurgia.it/donatoni.html
saluti, dario agazzi
intervento del m° davide anzaghi
Eliminami permetto di pubblicare l'intervento che il m° davide anzaghi desiderava consegnare al blog, in riferimento al saggio di donatoni ed al post presente. saluti, dario agazzi
Cortese Agazzi il saggio di Donatoni non fu soltanto da me pubblicato sulla rivista musicale MUSICA MINIMA ma da me commissionato a Donatoni e pubblicato sulla predetta rivista e recentemente sul sito di NOVURGIA.
Il quesito "perché scrivere musica" con le varianti "non scrivere" o "scrivere ancora" può avere tante risposte quanti sono i compositori o compositrici d'arte che se lo pongono.
Osservo la persistenza di un alto numero di compositori/compositrici attivi. Tale affollamento, in assenza di gratificazioni di alcun genere, è già una risposta. Il mercato rifiuta il consumo degli esiti dei compositori/compositrici d'arte. Ma può consumare sé stesso.
Comporre non è un'attività mercantile ma una necessità. Del solo autore.
La contiguità della menzionata necessità con il solipsismo è rischio evidente.
Come sottrarsi all'autismo di tanti esiti è problema demandato agli autori che non esitarono a replicare il comportamento di quel personaggio dell'INNOMINABILE di Beckett che apprestandosi ad ascendere una scala si pose l'inderogabile problema (di competenza psichiatrica) se iniziare l'ascesa con il piede destro o sinistro. Metafora di un autismo che nel migliore dei casi confluisce nei Festival di musica contemporanea.
Davide Anzaghi
L'analisi che reputo più soddisfacente del fenomeno modernista e postmodernista è quella di Daniel Albright. E' un peccato che ancora non sia stato tradotto il suo "Modernism and Music" - come del resto il suo "Quantum Poetics" (degli anni Novanta).
RispondiEliminaEcco cosa dice Albright sulla fine del postmodernismo (traduco velocemente).
"Quali sarebbero le condizioni in grado di liquidare perfettamente il movimento modernista/postmodernista? Forse la risposta risiede nello sviluppo di un linguaggio musicale avvertito, sia dai compositori sia dal pubblico, come 'normale'. Questi stili 'normali' sembrano esistere nel dominio del pop. Ma nei territori intellettuali del ventesimo secolo, lo spettro degli stili è così ampio e gli stili stessi così mutualmente ostili che lo stile in sé è sentito interamente come un artificio. E questo è vero non solo, ovviamente, per le avanguardie ma anche per i compositori relativamente conservatori".
un grazie sentito all'intervento di tiziano rosselli. certamente l'analisi di albright sembra porsi come necessaria accanto a quella di kirby. tuttavia, appare chiaro da entrambe come il "postmodernismo" non possa essere efficacemente inteso se non nel suo stesso superamento. ma, infine, la domanda dovrebbe essere: "che cosa ha superato- se ha superato qualcosa- il postmodernismo?"- probabilmente l'erronea concezione sta proprio nel concetto di "post-", di matrice ancora terribilmente positivista (la nozione di progresso). l'idea di un linguaggio avvertito come "normale" (e non parlo solo della musica) sarebbe probabilmente catastrofica, perché condurrebbe ad un livellamento immediato verso la frase fatta (quello che è accaduto nel cosiddetto "pop"). ionesco e prima ancora adamov hanno perfettamente stigmatizzato questa palese impossibilità di fare luce e di essere definitivamente chiari. forse uno sviluppo non è possibile. saluti, dario agazzi
EliminaCiao a tutti. Mi inserisco nella discussione e mi riallaccio a una delle cose che dicevamo tempo fa. Perché il linguaggio è un problema? Linguaggio considerato normale o no per me non ha propriamente significato. Per me esiste il parlare, il comporre, fare dei pezzi. Poi c'è la musica,la notazione, il linguaggio ecc. Quello che c'è dentro a volte lo chiamiamo linguaggio, a volte emozioni, a volte musica, a volte noia mortale. Ma in fin dei conti, e ne sono convintissimo, se nessuno avesse mai fatto della musica figa nessuno si sarebbe mai posto il problema del linguaggio per capire come diavolo sia fatta. Semplicemente avremmo fatto tutto per dimenticarcela. Invece pensare al linguaggio è un po' pensare a come il compositore ha fatto una cosa che ci piace e che ci piacerebbe conservare in uno dei tanti armadi del sapere. A volte è impossibile saperlo. Li è il bello per me. E onestamente la questione del linguaggio non mi piace. Salutoni.
RispondiEliminaciao eric. eppure la questione del linguaggio resta importante, non trovi? certamente, potrà non piacere, ma è quella alla fine la faccenda implicita o esplicita del "discorso" musicale. credo che sia da quel punto che parte albright citato da tiziano. come mai dici "a volte è impossibile saperlo"? una fede metafisica in ciò che non può essere (apparentemente) compreso? saluti, dario agazzi
RispondiEliminapiù che fede metafisica è il fatto che quando scrivo non penso mai al linguaggio...
RispondiEliminaad un livello inconscio mi pare, però, francamente impossibile non pensarci.
RispondiEliminaCredo che Albright voglia dire che il post-modernismo è, insieme, un esito del modernismo - dal quale non può essere più di tanto separato - e una 'condizione' più che un movimento. Cerco di spiegarmi. Quando Carl Dahlhaus definisce il modernismo musicale collocandolo tra il 1890 e il 1910 pensa, essenzialmente, al fatto che in quegli anni il tonalismo veniva torturato alla ricerca di altri mezzi espressivi e che, proprio in quegli anni, si verificava per la prima volta un radicale cambiamento semantico del linguaggio musicale. Per Albright l'inquadramento storico di Dahlhaus è efficace ma non tiene conto del fatto che un processo di progressiva crescita di complessità - innescato dalla crisi della scienza classica e da importanti cambiamenti sociali e politici - ha innescato un processo che INEVITABILMENTE ha prodotto esiti essi stessi complessi e vari. In questo senso il modernismo, nato per Albright con la musica di quel ventennio 1890-1910, è stato un armeggiare in modo divergente con il piacere di liberarsi dai limiti di un linguaggio egemonico, mentre il postmodernismo sarebbe la condizione nella quale, una volta cristallizzatasi la molteplicità e la diversità degli stili e dei linguaggi si raggiunge una sorta di punto di massimo e, attraverso il ricorso al bricolage, al polistilismo e all'utilizzo estensivo del caso, i linguaggi dialogano tra la ricerca di nuove frontiere espressive e la convergenza alla cosiddetta normalità. Dici bene, Dario, quando affermi che l'idea di un linguaggio avvertito come 'normale' sarebbe probabilmente catastrofica. Devo dire, però, che credo che in questo senso la musica pop (e non mi riferisco alla top ten ovviamente e neppure alla top fifty), almeno per un certo periodo, sia stata più 'brava' della musica cosiddetta colta. La musica colta non ha colto (mi si perdoni il gioco di parole) l'insegnamento del modernismo, che seppe individuare nell'apertura alle più diverse e lontane esperienze umane l'anima della poesia. C'è un'esteticità, per dirla con Dewey, della scavatrice meccanica e c'è la capacità per ogni tipo di linguaggio di essere diversamente 'alto' e 'nobile'. L'accademia, in fondo, non è altro che il rinchiudersi dentro UN linguaggio: è quella la 'normalità' catastrofica dalla quale bisognerebbe guardarsi. Tiziano Rosselli
RispondiElimina@Eric Maestri: la differenza tra 'usare' il linguaggio e 'pensare' il linguaggio è, in fondo, la differenza che c'è tra la musica dell'età classica e quello che viene dopo quando l'extramusicalità del pezzo musicale non è più, come ai tempi di Hanslick, rappresentata dalla natura o dal 'sentimentale'. Pensare il linguaggio significa far diventare il linguaggio o i linguaggi gli strumenti per ampliare le possibilità espressive dell'atto compositivo. Quando, ad esempio, Xenakis compone Achorripsis egli è fondamentalmente attratto dalle possibilità musicali di un linguaggio che non ha niente a che vedere con la musica, il linguaggio matematico che descrive il campo di applicazione della formula di Poisson. Quando Varèse compone Déserts, è interessato alle possibilità espressive di fenomeni come la variazione di densità, la rarefazione, il movimento e lo scontrarsi delle masse e, ovviamente, alle loro possibilità musicali. Tu forse vuoi esprimere una certa insofferenza, che condivido, verso il ripiegamento formalista che spesso diventa sterile e autoreferenziale.
RispondiEliminaGrazie per il commento. Certo, sono d'accordo che il linguaggio sia un fattore fondamentale nella riflessione. Ma trovo anche che a forza di pensare a come facciamo abbiamo completamente dimenticato il che cosa facciamo e che cosa diciamo. Niente di nuovo. E, in fondo, sono convinto che, si, Varèse et Xenakis erano attratti da matematica e suono puro, che erano i loro "triggers", ma che quello che avevano in testa era il suono che alla fine hanno scritto: matematica e acustica era attrazioni, transfer creativi che, secondo me, a volte, gli hanno anche impedito di arrivare al massimo del loro potenziale musicale.
Eliminaciao eric, potrei chiederti in quali partiture di xenakis e varèse trovi che non siano arrivati "al massimo del loro potenziale musicale"? grazie, dario agazzi
EliminaPer Xenakis: Metastasis
EliminaPer Varèse: ce ne sono un pò: Octandre per esempio. Deserts è un capolavoro assoluto invece.
Octandre è la più 'formale' delle composizioni di Varèse, quella meno legata a suggestioni matematiche e fisiche, che lì sono peraltro mediate da una struttura formale tutto sommato tradizionale. Ma è un vero e proprio gioiello, grazie a quella capacità straordinaria di Varèse di trasfigurare la materia sonora. Trovo Octandre uno straordinario capolavoro.
EliminaSosterrei Varèse fino alla morte. Però non posso pensare che anche in Equatorial, per esempio, o Ameriques, avrebbe potuto andare più lontano. Certo che sono capolavori. Eric
Eliminaprescindendo dal fatto - del tutto personale ed opinabile - che non trovo a me congeniali né varèse né xenakis (come, più in generale, i compositori che si sono dedicati all'indagine sul "suono" stricto sensu, giungendo al paradigma dello spettro più o meno inarmonico), devo dire che è piuttosto complicato stabilire isolatamente delle priorità di valore sulle partiture di due autori il cui lavoro credo debba prendersi complessivamente. xenakis mi pare piuttosto sopravvalutato. boulez s'espresse molto lucidamente e causticamente su xenakis. la seguente intervista - anche se necessariamente superficiale perché destinata ad un quotidiano di tiratura nazionale - ne fa cenno:
Eliminahttp://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2002/09/16/il-musicista-che-studiav-da-matematico.html
saluti, dario agazzi
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiElimina@fabio selvafiorita: dal postmoderno siamo già fuori. le analisi menzionate di kirby e di albright lo hanno ben dimostrato. gli strascichi di cui parlava daniele all'inizio citando le serie televisive americane testimoniano senz'altro che i "passaggi" nella storia non sono mai drastici come vengono generalmente presentati, ma sempre e solo molto graduali. onestamente il tuo tono messianico mi pare a dir poco medievaleggiante: "fede nella musica" con "f" maiuscola. "riappropriarsi della metafisica". "brucarli vivi!" ma siamo tornati a rolando di cremona dell'ordine dei predicatori? e il manuale delle torture lo si prende in prestito da torquemada? - l'idea della "fede nel suono e nel suo potere immaginifico"- oltre che datata perché con simili parole si espresse inizialmente gérard grisey, quando parlò del fatto che "il musicista si occupa di suoni e non di matematica, di teatro, di agopuntura, etc." (che limitazione!)- creando molti epigoni attivi ancora oggi - mi pare un po' ingenua. permettimi di dire che liquidare in modo così massimalista i cosiddetti "valori" occidentali (anche qui, una categoria a dir poco vaga) accostando de vitry-bach-schumann-stockhausen (ma perché poi proprio loro quattro?) non mi sembra molto costruttivo. saluti, dario agazzi
RispondiElimina@fabio selvafiorita: dal postmoderno siamo già fuori, come testimoniano gli scritti di kirby e albright. quanto diceva daniele all'inizio sugli strascichi ancora presenti nelle serie televisive americane citate, testimonia che i passaggi storici avvengono in modo graduale e non repentino. francamente espressioni come "fede nella musica" con "f" maiuscola, "vera testimonianza trascendentale e metafisica", con "v" maiuscola nonché "bruciarli vivi!" mi paiono medievaleggianti e intolleranti. il libro delle torture lo si chiede in prestito a torquemada? anche la "fede nel suono e nel suo potere immaginifico" è una frase che suona francamente datata, e riecheggia le note affermazioni di gérard grisey sul fatto che "il musicista non si deve occupare di matematica, di teatro, di agopuntura" (sic! che limitazione): frase che ha portato comunque a numerosi epigoni dello "spettralismo". ridurre a 4 nomi (de vitry-bach-schumann-stockhausen: ma perché proprio questi 4?) i cosiddetti "valori" occidentali (altra categoria assai vaga) mi pare limitante. "la questione linguistica, indipendentemente dai mezzi e nel contesto metafisico, non si pone" non può essere sostenuta, mi permetto di dire, con tale leggerezza. saluti, dario agazzi
RispondiElimina