Oggi vi voglio parlare di un caro amico, Giovanni Bertelli, e in particolare della sua "Alla Breve". Gli "Alla Breve" sono cicli di cinque piccoli brani, della durata di circa due minuti ciascuno, commissionati dalla radio pubblica francese a giovani compositori. Questa pratica è decisamente una delle più encomiabili della radio d'oltralpe. L'"Alla Breve" di Bertelli è secondo me uno dei suoi lavori più emblematici e più riusciti. Si intitola "Lorem ipsum", e trovate la sequenza integrale dei cinque brani a questo indirizzo (cliccate su "écouter l'émission"):
La chiave di volta è, visibilmente, l'ironia. Il teatro dell'assurdo, la trasfigurazione del far musica. L'eleganza del mondo all'incontrario, in cui la voce si spande in un basso albertino (Gervasoni docet), in un mondo sonoro fatto di clacson e granulazioni nevrotiche. La presenza elettronica è un contrappunto continuo e integrato, pensato e costruito esplicitamente per la diffusione radiofonica. Le influenze chiare, quasi dichiarate, vanno dal già citato Gervasoni a Mauro Lanza o Francesco Filidei.
La parte iniziale del "Lorem ipsum" è una rielaborazione dei primi brani di un work in progress bertelliano, la "Missa Sine Domine". La goliardia ecclesiastica e i giochi di parole sono un fil rouge nei titoli della sua produzione (ricordo ad esempio una "Toccata della Madonna" per organo…), un modo ironico ma gentile per mordere a tutto tondo, senza vero anticlericalismo (forse anzi ne sono un antidoto?) e senza prendersi troppo sul serio, perché poi in fondo prima o poi arriverà qualcuno a riservarci lo stesso trattamento, e nemmeno noi gradiremmo che costui si prendesse a sua volta troppo sul serio, no? Prendersi sul serio è un peccato mortale; prendere sul serio la vita equivale a perdere il senso della morte: alla fine non ci rimane in mano nulla, nemmeno il gusto di esserci divertiti alle sue spalle, per una manciata di tempo.
In fondo, Bertelli è un buontempone. È abituato a scherzare e a farsi prendere in giro, e la sua musica rispecchia completamente la sua personalità. Ogni gesto, ogni frase, finiscono sempre con un punto di domanda, perché non puoi mica mai sapere per davvero se stai sbagliando oppure no. Il tutto quadra con una poetica iper-ironica, un'ironia che fa dell'ironia su sé stessa, aspettando che qualcun altro faccia la stessa cosa, oppure faccia dell'ironia sul suo far dell'ironia, salendo di uno scalino, e così via. Chi smette di salire è finito.
Se volete davvero entrare nella visione di Bertelli, non potete fare a meno di dare un'occhiata al suo spassosissimo blog, "Sintesi per modelli tisici". Per contestualizzare, ad esempio, leggetevi l'esilarante descrizione del Composytore contemporaneo. Lucida, impietosa, autoironica, vera.
"Lorem ipsum" è certo un titolo più politicamente corretto di altri precedentemente citati. Il "Lorem ipsum" è il testo comunemente usato come riempitivo nelle prove grafiche di impaginazione: non è nemmeno un vero testo, è una storpiatura di un testo latino che rimanda a Cicerone. In diverse parti, non ha nemmeno un vero significato, e ne esiste ben più di una versione. È un testo che ci ricorda da vicino le catene di Markov e le costruzioni pseudocasuali di parole. Insomma, è il meta-testo per eccellenza! Il testo è utilizzato nell'ultimo dei cinque brani, ma pure negli altri l'idea testuale è sempre in realtà un'idea meta-testuale (dire cosa? perché dirlo? con le parole di chi?).
Cantare il "Lorem ipsum" significa mettere in scena "il cantare in sé", è l'oggettivazione dell'idea di canto, è il canto in potenza, è una lambda-funzione. Cantare il "Lorem ipsum" è un po' cantare il cavolo che ci pare e piace sotto la doccia, vantandoci impunemente di storpiarne o scimmiottarne le parole. L'approccio al testo è qualcosa che mi ha sempre affascinato nella musica di Bertelli. La sua opera "AMGD – Aesthetica more geometrico demonstrata" (o "Ad Maiorem Gloriam Dei"? per ritornare ai calembour ecclesiali…), presentata in Biennale l'anno scorso, è una delle pochissime opere davvero convincenti che ho visto negli ultimi anni. Tra i tanti suoi pregi, uno in particolare: risolve magistralmente il problema più grosso che io ho sempre avuto con l'opera in sé: il fatto che c'è gente sul palco che comunica con altra gente sul palco cantando. È chiaro che il recitar cantando e tutto ciò che ne segue e ne deriva si basa su una certa sospensione dell'incredulità, ma nel mio cervello quest'incredulità spesso non riesce proprio a sospendersi (che sia nell'opera o che sia nel musical, allo stesso modo). Sto esagerando per marcare un punto: poi l'opera diventa classico, poi diventa costume, e allora la fruizione cambia completamente (poiché v'ha preso staaaanza laaaa speeeraaaanza…). Ma nelle opere nuove il problema del testo per me rimane, specie oggi, più forte che mai. Non voglio lanciare la questione ora (magari prossimamente?); accenno a questo solo perché l'opera di Bertelli risolve elegantemente il problema: il libretto non è composto da altro che da "bla bla bla" (completo meta-testo, mero parlare senza dire alcunché) o da sigle ("ti-vù, ti-vù"), e quando il testo si fa vero testo è solo per inscenare una preghiera collettiva, un Ave Maria. Il testo non esiste mai in quanto tale, solo come segnaposto per un'idea.
Togliere il significato della parola aiuta a concentrarsi sul senso della musica. Allo stesso tempo, di rinculo, aiuta paradossalmente la musica ad acquisire non già un senso, ma anche un significato condiviso (il "bla" arriva a tutti quanti noi più o meno allo stesso modo, l'Ave Maria pure: sappiamo perfettamente a che cosa si riferiscono). È una scappatoia, una wild card; funziona per Bertelli, per altri risulterebbe insopportabilmente kitsch. Ma invece Bertelli con il kitsch ci gioca, e si districa elegantemente grazie al gusto raffinato.
I primi due brani del "Lorem Ipsum" sono secondo me i più belli, anzi, tra le cose più belle di tutta la sua produzione. Sono freschi e comunicativi, in modo speciale la fine del primo brano e l'inizio del secondo. I gesti sono barocchi – e sì: tra clacson e paperelle di gomma, Bertelli è un altro dei compositori che andrebbero annoverati in un discorso su gadget e barocco in musica –, le figure sono classiche, ma la sonorità è stralunata e attualissima.
Il terzo scherza con Machault (osservatene attentamente il testo), ma non ha la freschezza musicale dei primi due. Il quarto è stralunato e soffice, con figure chiare in filigrana. L'ultimo ha una vocalità da Elio e le Storie Tese, e si chiude con la citazione finale del vecchio Almanacco Rai: un (altro) finto Machault per una finta comunicazione; un'apologia della finzione, da non prendersi troppo sul serio, una rappresentazione della vita come teatro, di cui la musica di Bertelli esplora la quarta parete. Il paradigma è spesso quello della raccolta, della collezione, dell'almanacco, del libro, del calendario; testi e pretesti, in ogni caso figure e archetipi fertili.
Ci sono limiti, in prospettiva? Certo. Il primo, sempre in agguato: senza idee fresche, il gioco meta-musicale sull'accademismo (e sui modelli ritmici) rischia di diventare stucchevole. È un rischio sempre dietro l'angolo con questo genere di lavori. Alla lunga i pattern e ritmi (meta)-accademici hanno bisogno di stimoli forti continui per essere recepiti in maniera non banale: la sonorità e l'elettronica bastano abbondantemente nei primi due brani, e aiutano (ma un po' meno) nel terzo; la strumentazione (l'ottavino grave con gli armonici degli archi), la grazia e i timbri aiutano nel quarto (i glissandi acuti non ci ricordano Drowninggirl? Ma l'inizio ha il sapore del buon Harvey e la costruzione ci rimanda a Berio), nel quinto siamo accattivati dal testo ("adipisci, dipisci, pisci…") e dalla vocalità. I clacson diventano una specie di firma, però a un certo momento la firma non basterà più, e ci si chiede che cosa verrà dopo: perché la musica di Bertelli non vuole essere per nulla concettuale (è tutta una copertura, un travestimento!), al massimo gaudente nel trastullarsi. E qui arriva un secondo possibile rischio: l'autoreferenzialità. Muovendosi nell'iper-referenzialità si rischia di perdere la bussola e ritrovarsi a gingillarsi con sé stessi (una sorta di onanismo musicale?). Il paradigma per cui si è tanto più soddisfatti di un brano quanto più ci si è divertiti a scriverlo (che pure io stesso applico a volte) è forse in generale un paradigma sbagliato? (Nato da un consolatorio: "almeno ci siamo divertiti"?)
Intendiamoci: questi limiti nascono da riflessioni nei momenti vuoti, sono questioni che sento affiorare in qualche misura dalla musica di Bertelli, ma che non sento assolutamente applicarsi in queste proporzioni adesso. Sono preoccupazioni in prospettiva, miste a curiosità di sapere dove andrà a parare. Poche persone affrontano oggi il comico in musica con la sua acutezza e il suo gusto, e la sua produzione non si limita certo a questo (si veda il suo Libro d'Aprile, per quartetto). Per quanto mi riguarda la fruizione della sua musica è spesso esattamente quel trastullarsi gaudente che, immagino, lui avrebbe auspicato.
Caro Daniele,
RispondiEliminale mie scuse per aver impiegato quasi quattro anni a commentare il tuo articolo - di cui ti ringrazio molto. Ti confesso che ho esitato parecchio perché le tue righe mi hanno provocato un dissidio interiore piuttosto intricato: da una parte, trovo che commentare una recensione (perché questa, di fatto, mi sembra proprio una recensione) con qualsiasi altra cosa che non sia un “grazie”, risulta immancabilmente patetico. Dall’altra, non sono affatto d’accordo con alcuni dei punti fondamentali su cui basi la tua analisi - il tutto ulteriormente complicato dal fatto che, in effetti, siamo molto amici: ragion per cui, credimi, farti le pulci su questo articolo è l’ultima delle mie intenzioni*.
Piuttosto, mi permetto di intervenire sulla tua ultima affermazione, visto che mi hai chiamato (più o meno direttamente) in causa: devo ammettere che in effetti no, non ho mai auspicato che il mio ascoltatore ideale si trastullasse gaudente con la mia musica - nemmeno nel caso di un pezzo sfacciatamente “giocoso” come Lorem Ipsum. Va da sé che non cerco di annoiare chi mi ascolta, ma il trastullo è esattamente il contrario di quanto io speravo di proporre con la mia musica. Ed ecco giungere il patetico, mi ha un po’ rattristato che uno stimato collega & arguto esegeta (che mi conosce in più assai bene) sia caduto in un tale equivoco.
Semplicemente, credo che la tua lettura parta da due fraintendimenti:
Primo, ironia e humour non sono la stessa cosa, no davvero. Immagino che si possa generare una tale confusione (e la pagina italiana “Ironia” di wikipedia, in questo senso, non aiuta granché), ma si tratta, appunto, di confusione. Ci arriviamo subito.
Secondo, l’ironia non è mai stata il mio fine, ma semmai il mio mezzo: e un mezzo che, per di più, ho impiegato in maniera molto meno massiccia di quanto non appaia leggendo il tuo testo.
Ora, vedo un grosso rischio nello scambiare il mezzo per il fine: un mezzo si presta molto bene a essere inscatolato dalle parole, che lo nutrono fino a diventare paradigma, quindi categoria, e infine etichetta prêt-à-porter, talmente ingombrante che impedisce di vedere ciò che davvero è importante. Di fatto, per quel che riguarda il mio lavoro, temo che un tale processo si sia già messo in opera.
Forse, la domanda giusta sarebbe stata qualcosa come: ma perché questo pezzo mi ironico?
Perché vedi, l’ironia altro non è che un mezzo retorico: in altre parole, scusa che mi metto la toga, l’ironia ha diritto di cittadinanza solo all’interno del linguaggio (linguaggio inteso in senso proprio: la lingua, le lingue che noi parliamo). Infatti, si ha ironia, quando il senso di un asserto x implica una discrepanza col fatto y a cui si riferisce: l’ironia non sta né in x né in y, ma piuttosto in quella z. che è la loro relazione. Esempio elementare: dire “be’, partiamo benissimo!” vedendo che ti hanno soppresso il treno. Un treno soppresso non è ironico di per sé, e nemmeno la frase “bé, eccetera”. Ma una volta che tiri un filo dall’uno all’altro, ecco che tutto diventa ironico.
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RispondiEliminaE se ci rifletti, mentre mi tolgo la toga, il fatto che un meccanismo di questo tipo sia rintracciabile in musica ha davvero del sorprendente - se non addirittura del miracoloso - per l’ovvio fatto che non ci sono (né ci possono essere) asserzioni in musica; in realtà, ci potrebbe sorgere il dubbio che una retorica dell’ironia sia musicalmente impossibile, e che quindi i termini della questione siano in effetti mal posti.
Ribadisco il punto essenziale: l’ironia non è mai una proprietà di un fatto, ma semmai del modo in cui esso viene osservato. Questo ci porta dritti alla questione humour: il “be’, partiamo benissimo!” perde di ironia se lo dici tu, uscendo da un appuntamento in cui hanno finanziato in toto un tuo progetto.
E per tornare alle ferrovie, il “be’ eccetera” mantiene l’ironia ma perde di humour se esce dalla bocca di un deportato riuscito a fuggire dal vagone, perché la resistenza gli ha cancellato la corsa del treno facendo esplodere i binari.
Potremmo andare avanti, ma credo sia già chiaro come tutto dipenda dai sottintesi, dalla situazione, dai punti di vista. Sarebbe davvero interessante vedere come ciò possa avere a che fare con un pezzo di musica. Sarebbe ancora più interessante vedere questo sia davvero possibile in musica, ma ormai mi son tolto la toga, e sarà per la prossima volta.
Mi basta aver puntualizzato questo: quel che tu trovi ironico, per me (o per un altro) potrebbe non esserlo affatto. Proprio in quest’ottica, ti invito a riflettere su quanto segue: potrebbe anche darsi che non sia il mio mondo ad essere alla rovescia, ma che forse noi si stia già vivendo in un mondo (artistico) con i piedi per aria. Ad esempio, hai mai fatto caso al fatto che il discorso sulla musica non è più semplicemente uno strumento per la comprensione di un fenomeno, o una traccia per aiutare l’ascolto? E che invece il discorso si stia sostituendo al senso della musica stessa, in un meccanismo un po’ perverso (e decisamente subdolo) per il quale è la musica che sembra esistere solo per illustrare un’idea/un concept/un’estetica - e non viceversa?
Attenzione, non sto facendo una critica velata al tuo articolo. Mi riferisco invece allo stato di cose per cui togliere la melodia al Bolero di Ravel è considerato “arte” della più pura & attuale - per fare uno degli esempi più clamorosi. Perché, bada bene, è proprio l’idea-di-togliere-la-melodia che diventa artistica in sé.
E questo genera un meraviglioso paradosso: quando “l’arte” coincide totalmente con “l’idea di” la realizzazione sensibile diventa del tutto superflua. In sostanza, meraviglia delle meraviglie, torniamo indietro di sedici secoli, più o meno all’altezza di Boezio e alla concezione secondo cui la musica mundana (la ben nota “musica delle sfere”), è infinitamente superiore alle altre proprio perché, di fatto, non suona…
Personalmente, ho troppo rispetto per la musica (suonante) per ritenere che essa abbia bisogno di apparati teorici che la puntellino dall’esterno, o anche solo di prese di posizione che la “giustifichino”; onde per cui, oltre a sperare ardentemente che qualcuno trovi in ciò che ho scritto qualcosa che vada al di là di un “gaudente trastullo”, non ritengo necessario aggiungere altro.
Ti ringrazio di nuovo e ti auguro il meglio,
un abbraccio,
Giovanni
*Soprattutto per ciò che riguarda la sezione “limiti in prospettiva” che è in realtà la mia parte preferita, proprio per la sottile ironia di cui è permeata: si riferisce, mi sembra di capire, a pezzi che avrei-forse-potuto-scrivere (ma che non ho scritto). E siccome in effetti non li ho mai scritti, mi siedo tranquillo in disparte ad ammirare come questo ragionamento continui a vorticare per conto suo.