Regnum Animale di Mauro Lanza e Andrea Valle è un lavoro che mi appassiona per molte ragioni. Prima di raccontarvele, però, varrà la pena di provare a spiegare di che cosa si tratta.
In scena abbiamo un trio d'archi amplificato e tutta una popolazione di oggetti quotidiani e buffi strumenti musicali: coltelli elettrici, cicalini, radiosveglie, una specie di zampogna costruita con tre flauti dolci di plastica, vecchi giradischi, armoniche collegate ad asciugacapelli, uno spremiagrumi, lampadine - ventotto in totale. Nessuno suona direttamente questi oggetti: è invece ben visibile, dichiarata, una rete di cavi elettrici che li connette a un laptop davanti al quale Andrea Valle siede - come un quarto strumentista in scena, si potrebbe dire: ma se conosco Andrea potrei scommettere che il suo compito durante il concerto è più che altro lanciare i vari movimenti dell'opera e verificare che tutto proceda bene, non "suonare" i vari strumenti e non-strumenti tramite qualche tipo di interfaccia più o meno musicale. Non mi risulta ci sia online un video del concerto, ma questo dovrebbe rendere l'idea. Potremmo dire che sono gadget, ma talmente numerosi, e talmente strutturali, che la situazione finisce per ribaltarsi: al limite è il trio d'archi a essere subordinato agli oggetti, che sono poi gli animali cui allude il titolo, in un gioco raffinatissimo di riferimenti a un bestiario medievale e ai suoi eredi (post-) moderni, Codex Seraphinianus in primis.
Ma torniamo un passo indietro. Mauro e Andrea: una delle cose che colpiscono già a prima vista è il fatto che l'opera porti doppia firma, e che i due autori siano personalità così diverse, se non altro nel pedigree: Mauro è uno dei compositori di spicco delle nuove generazioni della sedicente musica colta europea, rappresentato in tutti i festival, cresciuto tra i conservatori italiani, Grisey, l'IRCAM. Uno "del giro", insomma. Il percorso di Andrea è completamente diverso: rock d'avanguardia, improvvisazione radicale, free jazz, laurea in semiologia, docenza universitaria (beato lui!), ma anche studi di teoria musicale tradizionale, tutt'altro che superficiali ma sicuramente condotti in maniera marginale rispetto a una vita artistica che di tradizionale ben poco ha, e che si svolge piuttosto negli ambienti della musica cosiddetta sperimentale (un'etichetta di cui sono invidiosissimo), quella di cui parlava Fabio Selvafiorita in un suo illuminante intervento di qualche mese fa (ma Fabio, perché l'hai rimosso?!?). Qual è il punto di contatto? Il più evidente lo chiamerò, e non sono il primo, musica ex machina - qualcosa di cui un giorno qualcuno dovrà occuparsi su queste web-pagine. Mauro è uno dei più grande esperti che io conosca di formalizzazione musicale e composizione assistita da computer; Andrea è un guru della composizione algoritmica e probabilmente la massima autorità italiana in materia di SuperCollider. Due nerd, insomma. (Viva i nerd!)
Le meccaniche della composizione sono però insondabili - che cosa ci porta, in definitiva, a scrivere un pezzo invece che un altro, una nota anziché un'altra: chi siamo, cosa mangiamo, di che umore ci siamo svegliati al mattino. C'è chi sostiene che l'impiego di solidi sistemi di formalizzazione musicale ci liberi dall'influsso malefico di queste contingenze. Dal mio punto di vista, invece, tutte queste contingenze sono ciò che siamo, almeno finché i Cybermen o i Borg non avranno compiuto la loro missione; e, per citare Daniele Ghisi, mi sembra che chiedere aiuto alla macchina nel processo creativo, in una delle molte forme in cui questo è possibile, sia usare un cannocchiale che ci permette di vedere meglio ciò che stiamo cercando, che poi in definitiva è noi stessi - chi siamo, cosa mangiamo, di che umore ci siamo svegliati al mattino.
Tutto questo per dire che l'uso forte del computer nell'atto della composizione, che sicuramente accomuna Andrea e Mauro, non è sufficiente a spiegare l'unitarietà di quest'opera, nella quale non saprei attribuire una sezione, un passaggio, un aspetto all'uno o all'altro dei due compositori, e che si realizza molto al di là di questa loro condivisa e gioiosa nerdiness, e nonostante le loro così diverse provenienze. Si aprirebbe, se volessimo, un discorso che mi attrae moltissimo, quello della creazione musicale a quattro, sei, 2n mani: pratica rarissima dalle nostre parti, frequentissima altrove (il rock ad esempio, ma non solo) e che qui mi sembra realizzata nella sua forma più perfetta e misteriosa, quella in cui le individualità degli artisti arrivano a fondersi in maniera completa per dare vita a qualcosa che le trascende.
C'è almeno un altro aspetto di questo pezzo che mi parla da vicino: la forma. Ho già accennato al fatto che ci sono vari movimenti: sì, ma i movimenti sono ventotto, ciascuno lungo quarantaquattro secondi, per una durata totale di venti minuti. Credo che una riflessione vera sul tempo musicale - microtempo, macrotempo - sia necessaria e urgente. Non che sia cosa nuova: penso come minimo a Webern, Kurtag, Stockhausen, e anche naturalmente a Feldman e La Monte Young; penso a tanti soundscapes e installazioni, che però vengono un po' ignavamente chiamati "sound art" piuttosto che "musica"; penso alle "microsongs" dei gruppi grindcore, brevi fino al paradosso; penso anche all'ultimo Beethoven a cui peraltro penso sempre. Ma a un certo punto, com'è avvenuto per tanti aspetti della nostra pratica di compositori che si vorrebbero sul filo bruciante dell'avanguardia e invece troppo spesso si ritrovano nelle paludi dell'accademia, anche rispetto ai tempi della musica ha preso piede una convenzionalità fatta di arcate estremamente confortevoli, pezzi di dodici minuti (uno dei mali del nostro tempo, il pezzo da dodici minuti) eventualmente divisi in tre o quattro sezioni: che va benissimo a patto che non diventi scontato, e invece diventa scontato. Allora il lavoro sulla forma di questo Regnum Animale, ostentatamente meccanico e "antimusicale" - nel senso bello, ovviamente, di sfida e scoperta -, oggetti statici, senza sviluppo, è intima necessità ma anche, fieramente, presa di posizione, dimostrazione che altri mondi sono possibili e che forse il nostro non è il migliore.
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