"La voce è qualcosa di diverso da uno strumento perché non si separa mai dal suo interprete. Si presta continuamente alle innumerevoli incombenze della nostra vita: discute col macellaio per l'arrosto, sussurra dolci parole nell'intimità, urla insulti all'arbitro, chiede la strada per Piazza della Carità etc. Poi la voce si esprime con i "rumori" comunicativi, come i singhiozzi, i sospiri, gli schiocchi di lingua, i gridi, i gemiti, i gorgogli, le risate."
Cathy Berberian
Dopo circa un secolo dal Pierrot Lunaire sono molti, ancora oggi, i dubbi e le perplessità che ruotano intorno al comporre per voce. Se con lo Sprechgesang si compì una profonda metamorfosi del canto e molto probabilmente dell’intero concetto di vocalità, molteplici sono le correnti stilistiche che sono venute a identificarsi nel decorso di questi ultimi anni, grazie a compositori specificatamente dotati alla scrittura vocale, e a interpreti di assoluto valore, che hanno saputo seguire le indicazioni e tendere l’orecchio anche verso sperimentazioni extracolte. Rispetto ai secoli precedenti, l’importanza del testo e soprattutto il rapporto con esso, nel ‘900 viene completamente stravolto e ripensato. Non volendo minimamente semplificare il discorso, credo che vi siano stati almeno due grandi filoni di pensiero, uno che fa capo ad autori che prediligono la comprensibilità del testo, e l’altro legato a compositori per i quali l’intellegibilità della parola non appare come necessità inderogabile. La voce, contrariamente allo strumento, possiede una duttilità e una freschezza di emissione unica, cantare, emettere suoni è dialogo profondo con la propria fisiologia.
Come compositori bisogna essere consapevoli del fatto che trattare la voce oggi significa innanzitutto porsi delle questioni che inglobino necessariamente l’aspetto tecnico a quello etico.
Cosa vuol dire dunque oggi scrivere per voce? Molto probabilmente chiedere al cantante di utilizzare in toto il proprio corpo, di porre in luce ogni sfumatura e ogni risorsa presente nel proprio apparato fonico. Senz’altro importantissime sono state le contaminazioni e le intuizioni che molti dei nostri, anche immediati, predecessori hanno esplorato. Penso ad esempio all’influenza che il blues e il jazz hanno prodotto sull’emissione vocale, che miste a fusioni etniche di vario tipo hanno prodotto risultati di assoluto valore, come non citare gli esperimenti minimalisti di La Monte Young e Terry Riley, che utilizzarono tecniche di canto indiano. Nel blues e successivamente nel jazz, l'uso della voce, di derivazione prettamente popolare, smette di essere "belcanto" divenendo, anzi ritornando "suono", espressione della propria identità umana prima ancora che artistica.