Questo lunedì voglio prendere come spunto per qualche riflessione il nuovo libro di Fabien Lévy, pubblicato da Vrin, "Le compositeur, son oreille et ses machines à écrire". Si tratta di un libro destinato a musicologi e compositori (in modo particolare agli studenti di composizione) che analizza i rapporti tra scrittura e composizione nella musica occidentale.
La cosa che mi ha colpito a una prima scansione è stato ritrovare questioni e temi che sento di stringente attualità: il rapporto tra il formalismo delle avanguardie e il contenuto musicale, le problematiche legate alle teorie dei temperamenti, gli interrogativi sul concetto di "complessità", la critica del riduzionismo musicale, e così via.
Il punto di partenza per l'analisi è la differenza tra "grafemologie" e "grammatologie": il primo termine si riferisce alle tecniche di trascrizione, al modo in cui un evento sonoro viene rappresentato attraverso un certo numero di segni; il secondo si riferisce alle tecniche di scrittura, alle regole e ai modi con cui i segni possono essere combinati per produrre musica. Grammatologie possono naturalmente nascere da grafemologie, nel momento in cui una certa rappresentazione dei suoni (pensiamo ad esempio all'introduzione della "nota") diventa anche un modo per lavorare con essi, di combinarli, di organizzarli. In questo caso i segni sono entità autonome, che non si limitano a trascrivere eventi, ma inducono un certo modo di pensare gli eventi stessi.
Filo conduttore di tutto il libro è la frase di Grisey, che rimproverava a una certa parte delle avanguardie di "confondere la carta con il territorio". Sottoscrivo queste parole più che volentieri, ma con una problematizzazione importante: una certa utopia delle avanguardie era l'attribuzione di significato alla scrittura ad alto livello, all'astrazione, a un approccio - in definitiva - di "grammatica formale". Ora, il ruolo giocato dalle grammatologie è stato fondamentale in ogni epoca; senza grammatologie non avremmo molte delle "conquiste" musicali. Nuovi strumenti hanno generato nuove collezioni di simboli, che hanno permesso nuove collezioni di suoni o di gesti, o nuovi modi di pensarli. Questo era vero ai tempi dell'Ars Nova (un intero capitolo del libro si intitola "Pour en finir avec les retrogrades"), e lo è egualmente con l'avvento dei mezzi elettronici. Per inciso, nel libro viene sovente riproposta la lamentela sulla mancanza di interfacce condivise ed efficaci per la scrittura dei suoni inarmonici e dei transitori: problema che, direi, invece andrebbe posto nella sua forma più generale - enormemente più grande: la mancanza di una scrittura condivisa dell'elettronica, o, per dirla diversamente, la mancanza di standard per la scrittura e l'esecuzione di brani elettronici. Insomma, la mancanza di approcci di scrittura che abbiano la pretesa di essere universali e che prescindano dalle implementazioni, concentrandosi eventualmente sui processi. Serve ancora molto tempo, dopotutto parliamo di una disciplina relativamente giovane. Troppo vicina al big bang.
È chiaro che l'approccio grammatologico è in realtà una fucina di punti di vista e opinioni. È strettamente legato a un lavoro sulle simmetrie, e a un lavoro sul gioco (ma di questo ho già parlato in un post precedente). Mi sembra di potermi orizzontare tra i vari approcci a seconda delle loro posizioni su due criteri fondamentali: l'importanza che danno alla "fedeltà percettiva" della trasformazione (quanto il risultato è in relazione con l'elemento originale), l'importanza che danno alla "fedeltà compositiva" della trasformazione (quanto la trasformazione è compositivamente elementare). Un retrogrado è compositivamente elementare, ma può essere percettivamente non banale da recepire; una trasposizione è compositivamente e percettivamente elementare.
Ciò che ho malamente chiamato "fedeltà compositiva" è simile al "principio di economia poietica" definito da Lévy: far sì che le trasformazioni operate siano percettivamente ricche ma compositivamente semplici (pensiamo appunto al già pluricitato caso del retrogrado). Per quanto mi riguarda questo principio è imprescindibile, ma tendo a pensare che un corollario debba essere che il risultato percettivo sia in ogni caso all'ascolto direttamente collegabile all'originale (altrimenti diventa un puro divertissement, più che legittimo ma, a mio modo di vedere, forse meno interessante). La retrogradazione, ad esempio, non sempre preserva una traccia fortissima dell'originale (a volte sì: pensiamo a una semplice lettura al contrario di un file audio; i casi in cui questa traccia viene preservata sono quelli che mi interessano maggiormente).
Una lunga parte del libro è dedicata all'analisi della parola "complessità". Questa sezione alimenta interrogativi e fornisce spunti. Non cade mai nella banalità post-strutturalista di definire come complessità la "quantità d'informazione" che v'è nella scrittura di un brano, e non confonde la profondità di pensiero con la complessità di scrittura (definisce tutto questo, ma passa oltre). Ciononostante quello sulla complessità rimane per me un capitolo insoluto. Forse un discorso insoluto, più in generale. Mi sembra che i compositori che ne discutono siano come gli scienziati che a inizio del secolo disputavano sulle proprietà dell'etere. Semplicemente, forse, la complessità compositiva è un parametro che non esiste. Esiste una complessità di analisi (quanti livelli di lettura diamo?), probabilmente una complessità percettiva (quante relazioni intessiamo tra ciò che sentiamo?), esiste una complessità di visione del mondo (quanto riusciamo ad andare al di là del senso comune?), esiste una complessità di esecuzione (quanto difficile è un brano da suonare?), esiste una complessità di approccio alla scrittura (in che modo generiamo il materiale e la forma?). Ma nessuna di queste domande dice nulla sulla complessità dell'opera in sé. E allora che cos'è la "new complexity"? La generazione dei ritmi di Ferneyhough non avviene in modo più complicato della scrittura di un brano pop. Al contrario, per quanto ne so (e il libro fornisce diversi spunti al riguardo), avviene in modo "grammatologicamente" più semplice. La complessità non è quindi nella grammatologia: è nella notazione? Lunghe sezioni del brano si soffermano sul rapporto tra segno e senso. Se la complessità è nella notazione, allora forse proprio non mi interessa: vorrei fosse profondità di pensiero, non farragine. E la concettualizzazione della farragine mi interessa ancora meno. Al contrario la profondità di pensiero può essere estremamente semplice, può dare vita a mondi elementari ma bellissimi. Forse questa posizione sarà ingenua. In ogni caso sarebbe un sogno congelare per qualche anno la parola complessità dal vocabolario dell'analisi e della composizione, non sentirla più. Genera confusione, fantasmi. (Il libro è molto meno critico di me su questo punto, per quanto lasci discretamente trapelare talune ritrosie, o forse sono io che ce le leggo…). Per dirla con Lévy:
La musique savante ne se réduit pas à la musique écrite, et inversement. L'intelligence d'une musique n'est pas liée à celle de ses écritures, mais éventuellement à celle des représentations mentales que le compositeur compose et que l'auditeur perçoit.
Sottoscrivo tutto, con un'eccezione: non credo nemmeno che l'intelligenza di una musica sia legata alle rappresentazioni mentali del compositore che la compone – questa semmai è l'intelligenza del compositore.
Una parte del libro molto affascinante è dedicata a una sorta di contro-storia dei temperamenti, che conoscevo solo in parte e che forse dovrebbe essere più insegnata; in particolare completa il quadro degli eredi di Pitagora, includendo nella "dinastia diretta" anche le influenze che, tramite Archita, l'approccio pitagorico ha sui modi arabi. Una parte più noiosa, ma di cui comprendo il fine pedagogico, è un'analisi storica del concetto di consonanza. Ogni volta che rifletto al problema in maniera sistematica mi trovo presto perduto. Personalmente non riesco a trovare appigli negli studi percettivi, mi sembrano tutti il miglior modo di scivolare; se mai dovessi avere la malaugurata idea di lavorare ordinatamente sul concetto di consonanza, probabilmente vorrei farlo indipendentemente da qualsiasi percezione (una consonanza astratta, per così dire). Se bisogna fallire, tanto vale fallire guardando in alto! Questo non toglie che gli studi di Helmholtz, su cui il libro si sofferma, e la loro successiva messa a punto (per esempio Levelt e Plomp, con la "banda critica") costituiscano un punto di riferimento fondamentale.
Infine vorrei prendere un ultimo passo che va in una direzione importantissima. L'approccio simbolico e grammatologico che la musica ci ha lasciato nei secoli (e specialmente negli ultimi cinquant'anni) è un approccio riduzionista, "cartesiano", per così dire. Quando scriviamo pensiamo a ritmo, altezze, durate, timbri, intensità.
On peut se demander si la représentation du phénomène sonore sous forme de paramètres traditionnels séparés et discrétisés de rythme, de hauteur et d'intensité est unique et optimale.
Questo è un punto fondamentale su cui Andrea Agostini ed io ragioniamo da diverso tempo, con particolare riferimento ai sistemi di composizione assistita. L'approccio cartesiano è estremamente limitato. Già Stockhausen aveva giustamente notato che altezza e ritmo sono due lati di una stessa medaglia: una frequenza è una variazione di un qualcosa nel tempo, e il ritmo pure; non c'è discontinuità tra i due, così come non c'è discontinuità tra i concetti di altezza e timbro. Concepire gli aspetti musicali come essenzialmente slegati gli uni dagli altri è un peccato originale. Forse una nuova grammatologia compositiva dovrebbe superare questa decomposizione ortogonale, riuscendo a concepire i fenomeni musicali in maniera più – e Andrea ora gongolerà sulla sedia perché questa è una delle "sue" parole – olistica. Teniamo presente anche che buona parte della grammatologia elettroacustica lo fa già (sintesi esclusa). Un approccio essenzialmente meno cartesiano, ma comunque relativamente riduzionista è quello a "database" (operare su suoni esistenti, operare su materiale dato). È una risposta che, tra le righe, mi sento di sottoscrivere, per quanto parziale e più che attaccabile. La pletora di descrittori che sono così di moda negli ultimi anni è un altro vagito. Per sviluppare però modelli ad alto livello forse bisogna aspettare ancora qualche progresso negli studi sull'intelligenza artificiale?
Il più bel paradosso che il libro riporta, a questo riguardo, è quello di Sadaï, un musicologo che ha chiesto a gruppi di musicisti di valutare separatamente la bellezza di questo ritmo:
di questa melodia:
e di questa armonia:
Risultato della valutazione: 1,6/10 per il ritmo, 2,4/10 per la melodia e 3,5/10 per l'armonia. Eppure mettendo tutto assieme…
Caro Daniele, grazie mille per la recensione: devo procurarmi presto il libro! Ti rispondo con una breve riflessione, di cui non sono troppo sicuro neppure io (..!), generata dalla lettura di ciò che dici (o meglio di una parte di esso, ché il tuo post è molto più ricco!!!): ossia ho l'impressione che, se da una parte è sicuramente arguto il rilievo griseyano del rischio di molta musica di "confondere la carta con il territorio", secondo me è però anche vero il contrario, ossia il rischio, di molta musica, sovente proprio di tradizione francese, di "confondere il territorio, la pavimentazione, con la terra", e di non riuscire a superare una prospettiva tolemaica, che elimina la profondità (visibile invece sulla "carta"), a favore della superficie, con il rischio di non superare mai la visione dell'orizzonte, le colonne d'ercole, e di coltivare il mero arabesco privo di fondamenta. E forse questo deriva anche, almeno in parte, dalla ricusazione da parte di tali compositori di una concezione di stampo grammatologico della scrittura musicale. D'altronde non è un caso che, secondo me, i casi più riusciti di notazione nell'ambito elettroacustico, come Traiettoria di Stroppa o gli ecosistemi udibili di Di Scipio, appartengano a brani in cui la superficie è prodotta da un profondo pensiero compositivo, e dalle notazioni stesse trasluca una salda e personale cognizione del suono, che permette una perfetta compenetrazione tra strutture di alto e basso livello. Son conscio che sia una visione parziale e semplicistica che non tiene conto di tutti i molteplici piani/modi coinvolti dalla scrittura, ma almeno in parte ne sono convinto.
RispondiEliminaAd ogni modo, trovo davvero molto interessanti le vostre riflessioni verso una concezione olistica del suono e mi interesserebbe conoscerle, e anche avere un'idea di quale sia la cristallizzazione notazionale che voi operate di tale concezione.
Mettendo tutto assieme il risultato non è molto migliore... Vorrei vedere cosa succede con un tema di Schubert!
RispondiElimina@Giacomo, grazie per la tua riflessione. Il problema della concezione "olistica" del suono è appunto cristallizzazione notazionale. Non ho risposte, per me è un problema aperto: le soluzioni che vedo fin ora sono di tipo pratico, ma non di tipo endemico né conclusivo. Trovo solo sia uno spunto di riflessione importante per il futuro.
RispondiElimina@compositore: Non credo di aver capito bene che cosa intendi dire... Mettendo tutto insieme esce un capolavoro...
Caro Daniele,
RispondiEliminaGrazie per aver segnalato il bel libro di Levy, e per le notevoli estensioni introdotte dal tuo ragionare, e che condivido.
Premettendo che sottoscrivo che "il solo orecchio resta in fine il garante del risultato", ci sono due punti che a me sembrano un poco elusi dal discorso di Levy, (benché direi che ciò avvenga in forza del suo stesso approccio): che riguardano, per semplificare, la percezione non cosciente o pre-cosciente, e la valutazione percettiva delle strutture.
La sola "realtà" acustica, percettiva e verbalizzabile (anche: ciò che noi crediamo/sappiamo di ascoltare, ciò di cui possiamo rendere conto) corrisponde alla totalità, all'essenza di un brano musicale, la esaurisce?
Se le operazioni compositive di un compositore non sono esattamente (o anche vagamente) rintracciabili e reperibili all'ascolto, dobbiamo dire che per questo l'opera è "mancata"?
La mia risposta ad entrambe queste domande è principalmente: no.
E' probabile che la stessa sarebbe anche quella di Levy, però molti dei suoi sviluppi sembrano tendere ad una declinazione opposta, talvolta con una venatura un po' "politica".
(Al di là di come "strapazza" la povera Ars subtilior, della quale invece personalmente trovo diversi esempi assolutamente fantastici, proprio sul piano acustico – cfr. il Codex Faenza e il Codex Chantilly – ho trovato per esempio simpaticamente anacronistico il suo insistere, nel 2013, sulla (non) percettibilità delle serie dodecafoniche, anche appoggiandosi a lavori – pionieri, per la loro epoca – del 1958. Ma magari mi sbaglio, e ce n'è ancora bisogno.)
Non identificare all'ascolto una retrogradazione (giusto per restare ad uno dei topics preferiti del libro) non equivale a non "sentire" la retrogradazione, e questo vale per tutte le operazioni, semplici o complesse, che modellano l'oggetto d'ascolto.
Il punto, dovrebbe stare altrove.
Inoltre, per le opere che se lo meritano, esiste anche un secondo ascolto, un terzo ascolto (un "n"-ascolto...) che possono differire, in funzione di informazioni e riflessioni accumulatesi nel mezzo.
Poiché esso coinvolge lo psichico nel suo intero, nell'ascolto musicale vi sono oceani di senso che si squadernano nel vagamente percepito, nello sfiorato e poi perduto, nell'indovinato, e si potrebbe magari scrivere una bella difesa dell'immaginazione puramente arbitraria, delle para-identificazioni, delle mis-interpretazioni, etc., come via percorribile alla conoscenza.
Un abbraccio,
Stefano