martedì 9 dicembre 2014

Che cosa la musica dice


Ieri sera eravamo in quattro a cena e parte delle cose seguenti sono estrapolate dai discorsi, rielaborate in un viaggio di otto ore tra Parigi e Strasburgo e messe per scritto appena trovata una presa per un computer agli sgoccioli. 

Abbiamo parlato, tra le tante cose, di senso; in particolare in relazione alla scrittura e alla tecnica. Su questo tema scivoloso e delicato ho riflettuto a lungo, ma in maniera personale, con pochi riferimenti ai dibattiti sul senso della musica. Parto, per esempio, da osservazioni banali sulla relazione tra lo scritto e il percepito: se il retrogrado di una serie dodecafonica non si sente, perché scriverlo? Ieri sera abbiamo anche parlato di Ma fin est mon commencement di Machaut; la forma palindroma appare dalla partitura e non all’ascolto. C’è anche Innere Stimme de l’Humoresque di Schumann: perché scrivere una voce da cantare interiormente? Perché scrivere quello che non si sente? 

In questi casi credo che la scrittura musicale non si riferisca a nulla, ma dia senso. Contorna il suono di uno scheletro di forme. Nel caso di Machaut, per esempio, non riesco a percepire il palindromo; ma il musicista che lo sa, forse vi riesce, e a quel punto si aprono degli spazi cognitivi inattesi. Allora la scrittura musicale è un supporto alla coscienza dell’ascolto. Scopriamo che la musica può anche essere costruita, che possiamo, se vogliamo, giocare con le proporzioni, e che nella musica esistono appunto tali proporzioni. Scopriamo così la dimensione del tempo in una maniera diversa, e ne diveniamo coscienti tramite il lavoro su di esso. La coscienza della costruzione diventa conoscenza di un fenomeno percettivo che ha una base più astratta. La scrittura permette un allargamento della coscienza del tempo e della melodia; indica il suo proprio mondo. Non sarei in grado di enumerare gli argomenti di Leonard Meyer sul rapporto tra musica e emozioni; ma, nella partitura, le emozioni provocate dalla musica prendono una dimensione diversa, come se le si guardasse da lontano. 

Il problema della scrittura e del suono si allarga allora a quello del senso e della conoscenza. Che cosa una musica dica, di preciso, non possiamo dirlo. Non possiamo per via del carattere del suono, che passa e non rimane, e anche per la nostra descrizione dell’esperienza, che è costruita sulla visione. Però, mi chiedo, possiamo dire facilmente che cosa  un romanzo o una poesia dicono? Possiamo dirlo di quelle forme d’arte che si basano su un linguaggio semanticamente codificato? A quale livello interrompere l’interpretazione delle parole? e a quale quello delle note che compongono le frasi musicali? Mi piacerebbe spiegare il mio punto di vista sul significato musicale. 

Se il significato delle seguenti sillabe è chiaro, « ba-cia-mi »; il senso può esserlo meno. Possiamo dire « baciami sul collo » o « baciami l’anima ». Il senso cambia in funzione dell’associazione alle altre parole; è tra « baciami » e « collo », « baciami » e « anima ». Quando suoniamo tre note una dopo l’altra, il significato è chiaro, si tratta di quelle tre note su quello strumento. Se invece ci interroghiamo che cosa le lega allora entriamo in un campo diverso, nel quale i significanti si coniugano, o si modulano. Quando ascoltiamo e leggiamo musica capiamo qualcosa, sentiamo il compositore, condividiamo o meno le scelte, a volte ci piace e a volte no. Succede come quando leggiamo un romanzo o una poesia.  

Secondo questa prospettiva la musica ha un significato: significa il suono, e non è un problema della musica se il suono in sé non indica un qualcosa di concretamente esistente nel tempo ma è, se vogliiamo, tempo stesso. Il compositore vuole dire qualcosa tramite il suono, nella forma del suono. La musica significa suono e quindi significa gli strumenti: quando scrivo un re diesis per una tromba, significo il re diesis e la tromba. Morton Feldman chiamava i suoi pezzi: Four Instruments, Cello and Orchestra, Piano and String Quartet. Si tratta di nature morte, di musica spogliata di senso fino all’osso; ma il riferimento semantico è seccamente definito: lo strumento e la nota. Feldman pensava alla sua musica come composta per i morti e non per i vivi: la musica è privata di senso e ridotta al suo riferimento primario, il suono e il corpo dello strumento, senza traccia psicologica o costruttiva. Il tempo pensato al suo « stadio selvaggio », coperto dal suono giusto lo spazio per indicarlo li dietro. 

Pensando all’esempio di Feldman realizzo che il divario tra senso e significato nella musica esiste, come in poesia, e che di significato in senso stretto possiamo parlarne anche nelle composizioni. Come nella letteratura le sillabe si riuniscono in parole, e quei suoni assumono senso.  Allora i suoni della poesia significhiamo qualcosa. O piuttosto anche lì si tratta principalmente di senso, come in musica? I suoni della poesia significano quegli stessi suoni e anche le cose evocate. La musica si aggiunge sulla materia; dà senso senza diventare immagine ma suono. 

Ascoltiamo la musica qui dentro:

Baciami; dammi cento baci, e mille;
cento per ogni bacio che si estingue,
e mille da succhiare le tonsille,
da avere in bocca un’anima e due lingue.

La musica è nel significato di questi versi, nel loro suono; il senso li travalica, non è in nessuno di essi di preciso ma in tutti. La differenza che trovo tra musica e poesia è che in musica ci riferiamo ai suoni e significhiamo quei suoni, senza riferimenti altri. Il problema allora non riguarda l’arte musicale, ma il materiale di tale arte. Si può fare musica con le parole o con le note. Però il suono, a differenza dell’immagine e dei corpi evocati nella poesia, ha un’entità specifica; è un oggetto effimero e transitorio. Non esiste per minuti e anni, ma al massimo per secondi. Il tempo vita del suono prodotto dai nostri strumenti è limitatissimo. Noi significhiamo quel suono quando scriviamo; il senso è tutto quello che la musica dice in quel suono e come lo dice tramite quel suono; dice le cose velatamente e implicitamente. Ma parla al corpo come la poesia della Valduga. In musica traduciamo il senso oltre il significato attraverso le costruzioni indicate sulla carta o nel sublime romantico indescrivibile. La scrittura musicale in relazione al significato e al senso aiuta a comprendere il senso. La visione della partitura, del tratto, della scelta degli spazi e dei ritmi delle frasi, dei valori e dei paradossi comunica il senso che la musica non può significare per i limiti intriseci al suo mezzo, cioè il suono. Parliamo spesso della scrittura di Ferneyhough, che è uno dei motivi del suo successo. Possiamo togliere da quella musica quella scrittura? No. Se lo facessimo rimarrebbe il suono ma il senso sarebbe svanito. Non so come questo meccanismo funzioni se non banalmente così. 

L’ascolto di Feldman mi dà la sensazione di una musica spogliata di senso, ridotta all’ossatura puramente semantica e referenziale del segno musicale; l’espressione ridotta all’indice e la scrittura come supporto per suono puro senza presenza umana. Così, in fondo, la musica mi sembra significare qualcosa. E quando scriviamo siamo in un mondo fatto di suoni che non possiamo condividere. Il mondo dei suoni non si reifica in cose, ma in vibrazioni che passano. Così l’effimero è un elemento che caratterizza la musica e che informa il suo senso. 


Lascio ai commenti rispondere a questi pensieri. Sono riflessioni che si basano sulla mia esperienza di scrittura; spesso nello scrivere ho la sensazione di dire qualcosa, di dirlo precisamente. Resta nella partitura ma il suono poi non riesce a rappresentarlo. Forse anche per questo scriviamo; rendere più solido l’effimero, dà un appoggio non solo alla riflessione, ma anche senso a un corpo che possiede principalmente energia e vibrazione ma non spazio visibile.  

3 commenti:

  1. [...] The only thing I deeply, avidly, wanted was a lucid, unillusioned eye. I finally found it in the art of the novel. This is why for me being a novelist was more than just working in one "literary genre" rather than another; it was an outlook, a wisdom, a position; a position that would rule out identification with any politics, any religion, any ideology, any moral doctrine, any group; a considered, stubborn, furious nonidentification, conceived not as evasion or passivity but as resistance, defiance, rebellion. I wound up having some odd conversations: "Are you a Communist, Mr. Kundera?" "No, I'm a novelist." "Are you a dissident?" "No, I'm a novelist." "Are you on the left or the right?" "Neither. I'm a novelist." Since early youth, I have been in love with modern art—with its painting, its music, its poetry. But. modern art was marked by its "lyrical spirit," by its illusions of progress, its ideology of the double revolution, aesthetic and political, and little by little, I took a dislike to all that. [...]

    da "Testamenti Traditi", Milan Kundera

    “…fare pensando, pensare facendo”, diceva Franco Donatoni. Io non riesco nemmeno piu’ a parlare o a scrivere decentemente nella mia lingua, figuriamoci a pensare… ma tutto sommato non mi dispiace o mi interessa piu’. Perdere contatto con forme e retoriche per privilegiare un pensiero sonoro (sound thinkining), o un pensiero “suonante”, al di lá di qualsiasi linguaggio, è ció che volente o nolente sembra essere il mio costante comporatmento. La realtá sembra inoltre dimostrare che nonostante tutto (…tutto il lavoro, tutte le composizioni, tutte le performances, attivita’, discorsi, seminari, saggi, libri, spartiti, partiti e partiture…) non riesco a verificare alcun effetto del mio operato nella realta’ del mondo. Il fallimento sembra evidente. Un pianeta lacerato e una umanita’ disperata non sembrano ricevere benefiche influenze da qualsivoglia posizione estetica o filosofica del/sul “discorso musicale”. Non-identificazione allora, consapevole e tenace, non come evasione o passività ma come resistenza, sembra essere - con Milan Kundera - non una scelta ma la vera necessita’.

    Molti anni fa quando lascia l’Italia, mi trovai a un simposio di compositori canadesi (non dissimile dai tanti frequentati un tempo in Europa). Ascoltavo anche qui le minuziose spiegazioni che venivano date per illustrare come si era voluto procedere nella strutturazione della forma e dei materiali, cosa si era voluto esprimere, quanto, perchè, ecc. Tutte queste “volontá” per giustificare o dare prospettive univoche o “ragionevoli” alla propria invenzione, per identificare (...ancora) motivazioni e funzioni. Ho pensato allora ancora a Franco Donatoni, a certa sua riluttanza a spiegare, a dare giustificazioni alla propria fantasia. L'invenzione, l'immaginazione non si spiegano, si donano alla percezione nella loro multiformitá, si fanno ascoltare, agiscono e non sono agite. Questo forse è per me l’unico “segreto” della comunicazione musicale: essa esiste in fondo ad un livello puramente emozionale. L'emozionalitá è immanente, l'espressione è imprescindibilmente legata all'istante, l'istante è imprescindibilmente trascendente.

    …mi ha fatto molto piacere scoprire questo sito (Grazie au link in una mail dell’amico paolo Aralla). Vivo ormai lontano dal bel paese e dalla nostra bella lingua da molti anni, ma incontrare l’energia e il vostro domandarsi aperto e cortese mi ha fatto piacere, …con un tocco di nostalgia.

    Un caro saluto dal far West,…e buone feste!

    Giorgio Magnanensi

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  2. Grazie per il bel commento. In fondo mi sembra che quello che lei dice sia anche il cure della questione. La musica e con la musica si possono dire cose che non si possono dire con le parole. Ma qualcosa si dice! Qualcosa pensiamo e riceviamo. Forse il dire è una riduzione di un termine più largo che è comunicare; o forse empatia. Cercavo di riferirmi anche io al problema del come si dicono le cose in musica e sul senso. Se in musica diciamo qualcosa lo diciamo tramite il suono, che provoca l'emozione, e anche i simboli scritti, che spiegano, introducono svelano e fanno conoscere una dimensione del suono che è quella del tempo, forse. Vista da fuori, da sopra e da sotto. Però, mi sembra, la molteplicità di prospettive che abbiamo sul suono e sulla musica non può diventare La Prospettiva unica, autoreferenziale. Parlo personalmente. Mi piacerebbe che la molteplicità di prospettive fossero indirizzate a proiettare con la musica delle idee e che lo sforzo compositivo si indirizzasse principalmente verso tali idee. Mi è difficile essere preciso. Mi piacerebbe dire quali idee ma li magari lo si può fare solo in musica. Chissà. Spero anche che questa discussione continui. Un caro saluto dal bel paese...

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  3. … potremmo forse parlare di una posizione etica, al di la’ della dimensione estetica? Una sorta di antidoto all’estinzione attraverso forme creative di trasformazione e dialogo: “cum-ponere” il/nel suono come continua ed eterogenea temporalita’ che esprime in forme udibili l’immanenza dell’essere (esserci) del/nel tempo. Potremmo quindi investigare testi, scritture e “linguaggi” non per cio’ che rappresentano (o pensiamo debbano rappresentare o significare), ma per cio’ che “fanno”, come agiscono e quali cambiamenti provocano, creano nel mondo. Questa è diventata per me una delle attività pricipali, e più importanti. In fondo cio’ che il suono e la musica hanno sempre fatto è istigare forme sostenibili di trasformazione, incontri e risonanze, dove la forma “si forma” - diviene.
    La musica non sarebbe qui materiale che cerca espressione, ma bensi’ la trasformazione tecnica dell’emozione stessa in forma sonora. Composizione allora è l’invenzione di una radicale individualita’, non per asserire un’autorita’ o superiorità di pensiero, ma per affermare (come fece Beethoven) una pluralita’ assoluta, altamenete differenziata perchè radicalmente individuata e assolutamente inventiva.

    …alla fine il mondo e la realtà (qualunque essa sia) sembrano comunque irriconciliabili, come negli ultimi anni della vita di Beethoven, quando si rifiutò (consciamanete o no non importa) di riconcilare in una sola istanza ciò che non si poteva riconciliare… “Ode an di Freunde”.

    Ciao,

    Giorgio

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