Complessità è una parola che è stata usata molte volte su questo blog: ne ha sviscerato meravigliosamente i gli anfratti più minacciosi Daniele Ghisi nel suo ultimo post. Non so dirne molto di più, se non che tra le musiche che amo ce ne sono di apparentemente semplicissime (l'Andante del 467), di manifestamente complessissime (l'Arte della Fuga); di manifestamente semplicissime (i Rolling Stones) e di apparentemente complessissime (Unity Capsule).
L'Andante del 467 per esempio mi impressiona sempre, e la cosa che mi impressiona di più è la lenta, placidissima progressione discendente che contravviene a tutto quello che ci hanno insegnato sulle progressioni, che scende, scende inesorabilmente, scende spaventosamente, scende abissalmente, scende per cinque volte consecutive e ogni ripetizione mi lascia più incredulo e più atterrito, e potrebbe bastarmi questo a dimostrare che le verità dei trattati, che la progressione si ripete due volte e tre sono troppe, sono ben povere verità, e che la composizione ha bisogno di uno sguardo olistico, perché questa discesa non avrebbe senso se prima non ci fosse una strana irregolarità ritmica, frase ternaria e poi frase binaria, che mina il nostro senso del tempo, se la melodia non spiccasse immensi salti di registro, che minano il nostro senso dello spazio, e se al di sotto della melodia che scende scende scende scende scende l'armonia non oscillasse senza meta, minando il nostro senso della causalità, ed ecco che la progressione è un brandello di tempo e di spazio di cui non ricordiamo l'inizio e di cui non possiamo prevedere la fine e di cui non capiamo il senso, un po' come la vita direbbe il semiologo da strapazzo che mi porto dentro, e la cadenza piccarda che termina dolcemente le ripetizioni ma non la discesa, perché poi in contravvenzione a tutte le regole sul buon equilibrio la melodia continua a planare verso il basso, la cadenza piccarda allora direbbe il semiologo che prontamente metterò a tacere forse è come la morte, e dicono che la vita e la morte sono le uniche cose di cui l'arte dovrebbe occuparsi, anche se io ci aggiungerei l'amore e il surf, ma il punto è che questi venti secondi di Mozart sono prima di tutto meravigliosamente belli, e ci dicono, questa è una ripresa, non una ripetizione, ci dicono che la composizione ha bisogno di uno sguardo olistico, e tutti i tentativi di ridurre la musica ai parametri ortogonali che costituiscono il diagramma cartesiano della partitura vanno forse bene per chi sta imparando a camminare, ma gli algoritmi che lavorano nella mente del compositore vero sono più complessi di così, e non li sappiamo ancora capire, e chissà se lo sapremo mai, io dico un giorno sì ma chissà, e non sarà certo con le nostre povere neonate tecnichine di formalizzazione che spiccheremo immensi salti e ci avvicineremo a Mozart, no.
Ma sto divagando, perché in realtà non è di Mozart che volevo parlare, ma di Fausto Romitelli, un po' perché sono dieci anni che siamo rimasti senza di lui e io che sono l'unico nuthinghiano ad averlo conosciuto credo sia un peccato che il 2014 sia passato senza ricordarlo su questo blog. Un po' perché ho partecipato recentemente a una produzione di Professor Bad Trip, e ho avuto l'occasione di guardarlo dall'interno a distanza ravvicinatissima: e ciò che ci ho visto mi ha impressionato. Bad Trip è l'opera di un compositore che non ha paura di nulla. Dentro c'è tutto, e la cosa pazzesca è che c'è anche tutto ciò che è proibito: la regolarità pulsante del ritmo, l'evidenza delle armonie che a volte vorrei chiamare tonali (in senso lato, certo: ma anche in senso quotidiano, citando Philip Tagg), la nudità delle figure, solo in parte attenuata dall'opulenza della scrittura degli archi. E da qui, da questa libertà, discende una complessità del senso che è profondissima, e che forse scaturisce più viva soprattutto dove la complessità del segno è minore, come nei tre finali, o in certe melodie quasi modali (Claude Vivier, dove sei quando ti cerco?), nascoste nel magma acido, come nelle canzoni più canzonose di An Index of Metals, e - posso? - come nella progressione del 467.
E mi dico: se fossi un grande compositore, forse è proprio lì che vorrei arrivare.
(Questo post era nato come omaggio a Fausto Romitelli nel decennale della scomparsa. Varie ragioni hanno fatto sì che restasse a lungo non finito nel mio computer. Lo pubblico oggi, in ritardo: il decennale è trascorso, ma l'omaggio resta.)
mi sa che tra l'altro oggi è il compleanno di Mozart...
RispondiEliminaOttimo pezzo Andrea. Sono spesso stato tentato di commentare i vostri bellissimi scritti, non riuscendoci finora.
RispondiEliminaMi hai fatto tornare in mente quando discutevo con Fausto precisamente di questo fatto della previdibilità e la mania di evitarla a tutti i costi. Ci riferivamo a quei passaggi nella musica di Grisey dove senti intonato il terzo armonico, poi il quarto, poi il quinto e via dicendo, che sicuramente faceva storcere il naso ai guardiani del buon stile. E di quei compositori che elaboravano processi lineari ma prima di metterli su carta rimescolavano un po’ per paura di essere noiosi. E che diamine! Se hai un’intuizione formale sufficientemente evoluta non ti fanno paura questi dettagli: Se a un certo punto ti serve una scala cromatica discendente (o una triade, o una cellula melodica, diatonica), mettila! È una sensazione molto bella quando ti si scioglie davanti agli occhi questa parola ‘proibito’, e ho proprio l’impressione che a me sia successo in compagnia e per l’influsso di Fausto.
Ovviamente non hai risolto tutti i problemi solo così. Nel mio manuale d’armonia ho messo in fondo alla parte più rigorosa (bachiana) un capitolo sulle regole e le eccezzioni dove spiego che appena il compositore trova un motivo valido per abbandonare una regola lo fa, e anzi che forse è proprio questo lo scopo del suo operare. Quando sorge una necessità formale più forte dei dettami dello stile, prenderne atto è una questione di rigore poetico e non di licenza. Aggiungo poi che tale necessità non si genera se hai paura della semplicità.
Ma giusto per non chiudermi dentro a un enunciato teorico: Trasgredire può anche divenire una necessità. Da anni è un po’ una costante del mio lavoro: generare le buone ragioni per trasgredire, Exit. Sicuramente è una delle cose che mi ha lasciato Fausto...e vuoi che non sia una tendenza fortissima anche in WAM?
ciao Atli, grazie del tuo commento - e della tua attenzione, ci fa piacere essere letti fino in Islanda!. Sono d'accordo con te, quando sorge una necessità bisogna declinarla senza paura. Ad esempio mi vengono in mente certi episodi nella musica di Claude Vivier, quando non esita a far suonare la pura e semplice serie degli armonici a un violoncello solo nel bel mezzo di un pezzo orchestrale (se ben ricordo)… ma ci sono senza dubbio tantissimi altri esempi! Un caro saluto!
EliminaA proposito di progressioni che scendono senza fine... :) http://youtu.be/TQBHLziS1OY?t=1h4m6s
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RispondiEliminaMi permetto frivolamente di partecipare anch'io, ricordando questo passo (de "Les agrémens") dove un'altra idea d'infinito è suggerita con il minimo dei mezzi:
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=fPasRgdJOT4&feature=youtu.be&t=48m5s
Bisous,
Stefano