Questa settimana vorrei proporvi un pezzo breve: "Henry in the sky with diamonds", per controtenore e ensemble, di Daniel Zea, un compositore di cui non abbiamo ancora parlato in questo blog (colmo volentieri questa lacuna).
Daniel Zea ha un profilo molto interessante, con un approccio schietto al suono elettronico. Le idee di performance, installazione, coreografia, lo accompagnano spesso nei suoi progetti. Mi piace in lui, oltre all'approccio all'"elettricità sonora", anche l'idea che un compositore possa sviluppare progetti invece che "pezzi". (La parola "pezzo" è già di per sé indicativa della parzialità dell'oggetto: come è bello però quando le cose sono talmente organiche da essere autonome. E se un pezzo è una visione del mondo, allora non può essere più solo un pezzo.)
Henry in the sky with diamonds è un brano puramente acustico. Il contesto in cui si colloca è importante per capirne la prospettiva: si inserisce in una serata composta da molti piccoli pezzi (costruiti a partire dall'aria Here the deities approve di Purcell), suonati dall'Ensemble Recherche, come omaggio in una serata per i 50 anni della Fondazione Royaumont. Quindi si tratta, per definizione, di un "pezzo d'occasione". Cerco di spiegare perché mi piace, e perché mi ha colpito particolarmente nella sequenza dei brani della serata.
Mi piace perché fa di un pezzo d'occasione un oggetto tridimensionale, concettuale e sensoriale. Non ricicla nulla, non toglie nessuna pretesa e non cade nemmeno nel fare un pezzo "d'effetto". È un oggetto, puro e semplice.
Mi piace perché è l'emanazione di un'idea semplicissima: la dilatazione ("time stretch") del file audio dell'aria di Purcell, che si porta con sé tutti gli artefatti dell'algoritmo digitale. Gli artefatti sono, in fin dei conti, l'elemento centrale: frequenze acute, dissonanze, etc. Un'idea che non può non stuzzicare il mio lato "nerd": chi si diverte a giocare con time stretch distingue quelli frequenziali da quelli temporali, e sa che a ogni algoritmo corrisponde un sound abbastanza caratteristico. Daniel Zea gioca anche su questo aspetto, non distante da quello che Lachenmann chiama l'"aura" del suono (una sorta di memoria sociale, extramusicale, archetipale, collettiva e individuale insieme). Secondo me una parte di quest'aura (se non tutta…) è composta da nostalgia, nel senso più lato del termine.
Mi piace perché stimola il beatlesiano che è in me: un po' come se il brano fosse l'oggetto che Purcell avrebbe scritto se fosse stato sotto l'effetto di LSD.
Mi piace perché scorpora l'energia dal risultato: è un pezzo scritto molto velocemente (…quasi un "affresco"?), eppure questo non toglie nulla alla fattura, anzi se mai aiuta la messa fuoco. Non si perde nei dettagli.
Mi piace perché la mano del compositore è minima: è un governare gli eventi, un tenerne traccia, un ordinarli. Il compositore fa un passo indietro e guarda l'oggetto da lontano. Questo approccio mi ha sempre affascinato: come sarebbe bello saper trovare nel mondo un ordine semplicemente facendo uno "zoom out", considerando gli elementi pertinenti e dimenticandoci degli altri. Questa è la ragione per cui progetti come A history of the sky o la sequenza di possibili orchestrazioni di un mantra in Speakings di Harvey, sono per me entrambi nel novero dei capolavori. Uno zoom out costringe l'artista a relazionarsi con il mondo.
Mi piace, infine, perché nonostante la scrittura veloce riesce a trasmettere agli strumenti quell'elettricità e quegli artefatti che rimandano a un mondo elettroacustico.
Intendiamoci: nessuno di questi motivi è un elemento di novità assoluta. Ma questo oggetto, che nasce piccolo, è talmente ben messo a fuoco che mi sembra grande.
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