lunedì 15 giugno 2015

Programmi di sala

Mi annoiano profondamente i programmi di sala in cui il compositore mi spiega quali intervalli ha usato, su quale principio combinatorio è basata la forma del pezzo o quali inedite tecniche di trattamento del suono elettronico ha impiegato. Mi fanno sempre pensare che non ci sia nulla di più interessante da sapere sulla musica, su ciò che vuol dire o che vi posso leggere: mi interesserebbe piuttosto conoscere i libri o i film o i cibi preferiti del compositore, capirei di più. E se invece provassimo a immaginare, per i nostri pezzi o quelli dei nostri amici o dei nostri idoli, degli shameless ads, dei piccoli furbi testi che provino a suggerire a chi non è del mestiere, a chi se ne frega degli intervalli e della combinatoria e dell'informatica musicale, dove guardare, che cosa si può cercare in questo o quel pezzo e perché, magari, lo si potrebbe anche amare? Nel mio mondo ideale ci sarebbero dei bravi copywriter che farebbero questo mestiere. In mancanza di meglio, così, per scherzo o per esperimento, ci provo io, con tre pezzi che hanno fatto la storia (di uno avevo già parlato tempo fa, mi perdonate?), scelti apposta per rendermi il compito facile.


Pierre Boulez — Répons (1981-1985)
"Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono." — Umberto Eco
Répons è un caleidoscopio, un kolossal per le orecchie, una Wunderkammer dove tutto può accadere a patto che sia brillante, colorato, sorprendente. Un grande ensemble strumentale davanti a te, sei solisti che ti circondano dall'alto delle balconate, altoparlanti dappertutto, echi, ricordi, specchi deformanti. Ritmo ed energia come forse non si sentivano dal Sacre e come forse non si sono più sentiti. Un'intera popolazione di figure musicali esuberanti (strumentali, elettroniche, non importa) che, forse senza saperlo, sfidano e abbattono fieramente lo stereotipo dell'astrusità della musica contemporanea: che, forse senza saperlo, non hanno altra ambizione se non quella di diventare mainstream: e ci riusciranno, tutte, strumentali ed elettroniche, nel giro di pochissimi anni. È un gioco, certo. Ma, proprio come L'isola del tesoro, I fiori blu, Essere John Malkovich, una grande partita a scacchi o una cena di alta cucina, è un gioco talmente raffinato, elegante, coinvolgente e feroce che contemplarlo è pura felicità, e si vorrebbe non finisse mai.


György Ligeti — Atmosphères (1961)

Non molte musiche possono vantare un videoclip firmato da Stanley Kubrick. Atmosphères sì, ed è la famosa sequenza "psichedelica" che precede il finale di 2001: Odissea nello spazio. Non per caso: Atmosphères è musica immensa, che parla di luoghi sconfinati e di tempi sovrumani, che disegna trame geometriche sottilissime ed esplosioni accecanti. Ma c'è anche una dolcezza tutta umana, un velo di Sensucht, piccole melodie che emergono dalle profondità cosmiche e subito muoiono. Atmosphères è musica che parla di quanto siamo piccoli davanti all'Universo, ed è bene ricordarlo di quando in quando, senza retorica dell'immobilità, perché le meccaniche celesti sono lentissime ma inesorabili, senza zen da supermercato, perché Dio, se c'è, sa il fatto suo, e senza il kitsch neo-futurista e vetero-new-age della Kosmische Musik, divertente, talvolta dirompente, ma immancabilmente così camp, che da lì a pochi anni avrebbe reso difficilmente spendibile l'afflato cosmico che in Atmosphères, invece, soffia ancora così potente a distanza di più di mezzo secolo.


Luciano Berio — Sinfonia (1968)
Il rock al suo meglio porta in sé con acuta intelligenza lo Zeitgeist, al suo peggio è stupido e volgare, ma l'essere canzone e quindi parola lo costringe a confrontarsi improrogabilmente con un qualche tipo di "senso" altro. La musica contemporanea di scrittura invece, trascorsi gli affetti barocchi, la teatralità classica, la minuziosa descrizione interiore del romanticismo, sceglie sovente di essere astratta, di non raffigurare che se stessa, le sue architetture, la sua ricercatissima tavolozza cromatica, come in Mondrian, come in Rothko. Berio, in Sinfonia, o almeno nei suoi movimenti più emblematici, si schiera in senso esattamente opposto: la referenzialità enciclopedica, l'interazione e l'integrazione con la cultura e la cronaca del suo tempo (Lévi Strauss, Martin Luther King), ma anche con l'immenso museo del passato onnipresente (Mahler), sono dichiarate, sfrontate, massime e massimaliste. Il miracolo è che, con tutto questo, Sinfonia è invecchiata benissimo e, ascoltata oggi, è divertente, sottilmente inquietante, ma anche profonda, toccante: e, soprattutto, straordinariamente intelligente.

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